Nel 1973 in una puntata di Canzonissima condotta da un giovane e ossequioso Pippo Baudo, Vittorio De Sica, settantaduenne, presenta, con classe cristallina, il figlio ventenne Christian: “Questo – dice con grande sicurezza rivolto al pubblico l’attore avvezzo ai palcoscenici di mezzo mondo – è mio figlio Christian. Presto sentirete parlare di lui”. Quarant’anni più tardi in una puntata primaverile di Porta a Porta, Christian De Sica commenta il filmato, ormai storico, che lo ritrae “pupone” (secondo l’affettuosa espressione romanesca) a fianco del padre. Col consueto fare sornione e la complicità assicuratagli da un ammiccante Bruno Vespa, Christian osserva che all’epoca era grasso e spinto da un appetito che sconfinava nella bulimia, finiva – non di rado – per superare il quintale. Oggi Christian De Sica pesa 81 chilogrammi, ma all’epoca ne pesava 105 e, forse, più.
Vent’anni prima di quella storica puntata di Canzonissima, nel 1953, il regista Joseph Mankiewicz teneva a battesimo il colossal Giulio Cesare. In un’ansa della narrazione smaccatamente hollywoodiana delle vicende del grande uomo, il regista si sofferma sul momento in cui Cesare scioglie, di par suo, le riserve: “alea iacta est”. Ma questa volta non per attraversare il Rubicone contro l’odiato Pompeo, bensì per riconosce Cesarione: il figlio avuto a Roma da Cleopatra. Cesare dunque si avvicina al piccolo e lo afferra, rivolgendolo poi verso gli astanti lo “tira su”. Lo solleva a braccia elevate – come oggi giorno si è visto fare solo con la Coppa del Mondo o la Champions League – come atto pubblico di riconoscimento.
“Tirare su un figlio” è un modo di dire figurato e ciò fa sì, appunto, che anche l’ultra settantenne Vittorio De Sica possa esserci riuscito a “tirar su”, per giunta in diretta televisiva, e senza accusare malori, il figlio Christian di 100 e rotti chili. Fuor di metafora: se all’epoca di Cesare il riconoscimento indicava in modo pressoché univoco un preciso atto giuridico, equivalente al riconoscimento legale, oggi a questo significato si è aggiunto quello del riconoscimento psicologico. Si tratta di atti che in ultima analisi coincidono, nel senso che in assenza del riconoscimento psicologico (si può anche dire personale) quello giuridico rimane un atto incompiuto (e viceversa). Eccoci così approdati su un altro palcoscenico, quello delle nostre esistenze singolari, dove il riconoscimento è uno degli atti più desiderati; un atto bramato a tal punto da illuderci e indurci – non di rado – a scambiare lucciole per lanterne: banali lusinghe con atti di stima. Ma anche, atti di stima con banali lusinghe. L’una cosa non è peggio dell’altra.
Il riconoscimento è l’atto che fonda il soggetto in quanto tale, che lo costituisce nella sua competenza in merito al saper distinguere il piacere dal dispiacere, il bene dal male o come comunemente si dice “la destra dalla sinistra”; non che per questo venga elargito con generosità, sia all’interno delle mura domestiche, sia fuori.
Ma torniamo ai De Sica. Quarant’anni fa, nella grande hall del moderno aeroporto di Fiumicino si svolgeva una particolare forma di riconoscimento, apparentemente casuale, ma potente come un’antica benedizione. Christian De Sica la racconta nel suo libro Figlio di papà (Mondadori): “Mio padre mi diceva: vuoi fare l’attore? ….Ma che sei matto? Studia (…) Mio padre non voleva in nessun modo che io facessi l’attore, e mai mi avrebbe aiutato, segnalato ad altri o fatto lavorare in un suo film. (…) Presa la maturità, bei voti, media dell’otto. Voglio fare il viaggio iniziatico, quello esistenziale (…). Destinazione Sudamerica. Caracas. (…) papà e mamma mi accompagnano. Silenziosi, non dicono niente (…) pensavo che mi dicessero: ‘Sta’ attento, la metti incinta’. Andavo da una ragazza venezuelana, Rina Ottolina, figlia di un presentatore televisivo, con la speranza di fare l’attore. (…) ‘Chiamaci, non fare lo stronzo, non bere martini, whisky, mettiti la maglia’, insomma le cose che i genitori dicono a un ragazzo di quell’età che sta per partire (per Caracas sognando … fiesta, fuego, amor.) Niente. Silenzio. Annunciano il volo… Mamma comincia a piangere, papà persevera a non dire niente, io mi avvio sentendomi quasi in colpa per questo irreale non detto, quando, mentre sto sulla scaletta, sento un fatale e teatrale “Christian! Christian!, e mi giro: ‘Che è?’. ‘Ricordati, prima di entrare in scena, un’ombra di grigio sulle palpebre’…”.
La forza del riconoscimento sta tutta qui, in questa frase meditata, “fatale e teatrale” insieme, detta come nulla fosse, come una battuta lieve, che sta all’altro, al figlio, se vorrà, darle peso. Conferirle la gravità necessaria al movimento, e sufficiente per tenere i piedi per terra. Un’eredità può essere una maledizione, un obbligo vincolante, un ricatto imperituro, un “avresti dovuto…”, che diverrà un avrei dovuto inossidabile: infernale. In quel suggerimento lieve (il contrario sarebbe greve) c’è invece l’offerta di un pensiero, di un orientamento, senza l’obbligo del comando, della marcia militare a tappe forzate per raggiungere l’obbiettivo secondo i tempi impostati da “crono-programma”.
Ma poi cosa lo convalida il riconoscimento di un padre (e di chi eventualmente fosse − di grazia − disposto a farne le veci) se non l’appezzamento del figlio, che lo ricorda a distanza di quattro decenni, e comunque non lo dimenticherebbe mai “campasse cent’anni”. Parola di Christian De Sica. Un attore.