Nella sua solida, numerosa famiglia, cattolica e irlandese, era stato preparato dal padre a diventare Presidente. Ma la sua presidenza fu breve, troppo breve perché potesse dare frutti politici duraturi. Fu infatti la sua uscita di scena, e il modo in cui questo accadde, a consacrare in modo definitivo la figura di Kennedy che abbiamo conosciuto. In quel 22 ottobre 1963, i fotogrammi del cranio fracassato dalle fucilate di Lee Oswald, mentre la gente applaudiva ancora inconsapevole e Jackie Kennedy, inginocchiata all’indietro, era già nel dramma, Kennedy varcava la soglia della storia per entrare nell’anticamera del mito. Un’icona che si sarebbe via via ingigantita, alimentata dalle ricostruzioni più o meno fantasiose, dagli scandali della sua vita privata, dalla maledizione che sembrò, da allora, spazzare via ogni membro della sua famiglia.
Ma già nei tre anni della sua presidenza, anzi fin dalla campagna elettorale, Kennedy era apparso come il Nuovo, ciò che la parte dinamica dell’America voleva, la grande opportunità che gli anni 60 si apprestavano ad offrire al mondo intero.
È da tempo che gli storici sono al lavoro. Oggi però, a differenza del passato, il presidente Kennedy non è più l'”uomo buono” del mito di Camelot, l’artefice di una “Nuova Frontiera” americana, ma solo un uomo di cui restano le buone scelte, gli errori, le debolezze, le decisioni politiche. In occasione dei 50 anni della morte, Sergio Romano ha scritto sul Corriere della Sera un ritratto di Kennedy al termine del quale non resta quasi nulla. “Uomo d’azione. Ma non un grande presidente”. È più moderato il giudizio di Massimo Teodori, storico, uno dei massimi esperti in Italia del mondo americano.
Negli Stati Uniti c’è stato un mito di Kennedy come in Europa?
Direi che il mito di Kennedy è cresciuto soprattutto in Europa, in ogni caso più fuori che entro gli Stati Uniti. Certo anche in America un presidente giovane, il più giovane della storia statunitense, con vizi, virtù, bellezza, e con una forte storia familiare, ha contribuito in maniera essenziale al mito, il mito di Kennedy-Artù e di Camelot che è stato costruito da Jacqueline subito dopo la morte. Ma è stato lo “stile” della presidenza, assai più che la sostanza, a delineare quell’immagine che è giunta fino a noi. Ciò ha fatto sì che quello stile – appunto – risultasse determinante più in Europa che in America dove pure ha avuto ampio corso.
Stile imitabile o inimitabile?
Difficile dire. Certo lo stile di Kennedy si è distinto da quello dei presidenti precedenti, in particolare da quello di Eisenhower che lo ha preceduto, ed anche da Truman che ha guidato la nazione dopo la guerra. Vorrei citare però un elemento importante nella costruzione del mito che spesso si dimentica: la televisione.
In che misura, secondo lei?
In maniera decisiva. Prima di allora la tv non aveva mai seguito il presidente come avvenne per JFK, cosa che poi è continuata con sempre maggiore intensità. Molti osservatori sono dell’opinione che Kennedy non sarebbe stato eletto presidente se non ci fosse stato il famoso dibattito televisivo con Nixon.
Nel quale Kennedy si mostrò come il “nuovo” contro il “vecchio” rappresentato da Nixon.
Proprio così. La tv mise in evidenza le qualità di comunicazione di Kennedy: lo stile nuovo, giovane e diverso che fece la differenza con Nixon e lo portò alla Casa bianca.
Kennedy è stato il primo presidente cattolico degli Stati Uniti, ma anche l’ultimo. La sua elezione c’entra in qualche modo con la sua fede cattolica?
No. La sua elezione è scaturita da una serie di elementi politici e sociali rappresentati dalla sua personalità. In quei primi anni 60 l’egemonia wasp (bianco, anglosassone e protestante, nda) comincia a declinare senza più riprendersi. Oggi si parla dei non-bianchi e cioè dei latinos, dei neri e degli orientali come dei guppi etnici che tra qualche anno supereranno in numero i bianchi. Ma cinquant’anni fa era in corso un altro fenomeno demografico, quindi elettorale: le minoranze etniche bianche non wasp cominciavano a sopravanzare, dal punto di vista quantitativo e della presenza pubblica, il vecchio nucleo anglosassone protestante, e questa è una delle ragioni per le quali un non protestante − nel caso di Kennedy, un cattolico − fu eletto.
Per Kennedy quanto pesò la componente etnica?
Molto. Aveva alle spalle una famiglia fortemente inserita nel nucleo etnico irlandese, che fece da volano anche agli altri gruppi cattolici, primo fra tutti quello italo-americano.
Il 2 ottobre 1960, a Huston, durante la campagna elettorale, Kennedy si trovò discutere con i ministri protestanti. La sua fede cattolica era vista come un problema, ma egli disse loro che non era tanto importante la Chiesa in cui lui credeva, ma in quale America si credeva. Secondo lei il “caso Kennedy”, con il conflitto latente che poteva comportare, condizionò l’epoca successiva?
Il problema della doppia fedeltà, dello Stato da una parte e della Chiesa romana dall’altra, fu superato proprio con la presidenza Kennedy che dimostrò come un non protestante, anzi un cattolico estraneo al gruppo storicamente egemone, poteva essere un pilastro dei valori della Costituzione degli Stati Uniti come lo erano stati fino ad allora i presidenti provenienti dalla tradizionale appartenenza religiosa americana. La presidenza “cattolica” di Kennedy contribuì così a far cadere un rilevante pregiudizio verso il papato romano.
Altro tema è quello razziale. Fu Kennedy a “salvare” i neri?
No, fu soprattutto il suo successore Lyndon Johnson a portare la battaglia integrazionista a compimento. In principio la svolta va fatta risalire al 1954, quando una storica sentenza della Corte suprema abolì teoricamente la segregazione nelle scuole, anche se in pratica l’azione decisiva fu svolta anni dopo dal movimento integrazionista nero (e bianco) facente capo a Martin Luther King. La presidenza Kennedy prese atto, specialmente ad opera del ministro della Giustizia Robert Kennedy, di quello che stava accadendo alla base sociale negli Stati del Sud, e cercò, se pure tiepidamente, di legittimare il movimento a Washington con la proposizione del Civil rights act. Dal punto di visto storico la campagna integrazionista fu un altro momento “incompiuto” della presidenza Kennedy.
Molti tendono a ridimensionare anche la sua politica estera. Lei che ne pensa?
Qui sarei più cauto. Nel confronto col blocco sovietico, Kennedy è stato un presidente che ha tenuto ferma la posizione anticomunista − si parla di cold warrior − cercando tuttavia di declinare il confronto tra i blocchi in maniera meno muscolare di quello che avrebbero voluti i “falchi” dell’epoca. Il punto importante in politica estera si ebbe quando, in occasione della crisi dei missili sovietici a Cuba, Kennedy bloccò l’escalation militare che avrebbe potuto portare alla guerra nucleare. Avere evitato la catastrofe, anche contro i suoi apparati militari e di intelligence, è sicuramente il maggiore merito di quei mille giorni kennediani.
(Federico Ferraù)