Questo anno scolastico ha certificato la fine di un’illusione, se si può così definirla.
L’idea, cioè, che ha accompagnato la stagione riformista degli anni novanta, centrata sull’autonomia scolastica come migliore risposta, qualitativa e non meramente burocratica perché centrata sul riconoscimento delle professionalità dei presidi e dei docenti, alle nuove domande sociali di formazione.
A onor del vero, quella stagione non riuscì a produrre un nuovo contratto di lavoro, oltre l’attuale finto egualitarismo, nemmeno un ridisegno degli organi collegiali, oltre il mito sessantottino dell’assemblearismo. Per cui, alla fine, tutto restò lettera morta, al di là dei diversi interventi legislativi. Tutti, in fondo, di superficie.
Ieri, come oggi, la cruna del mese di agosto è sempre stata ed è la gestione dell’organico, strutturata in modo centralistico e sull’individualismo del ruolo dei docenti, come dei presidi e del vario personale all’interno della comunità scolastica. Le graduatorie, in realtà, non sono forse una gestione matematizzata del personale che disconosce la centralità delle persone, ridotte a numeri? Ecco, la scuola non è riconosciuta e valorizzata come una comunità, di lavoro e di proposta educativo-culturale, ma solo come un organo periferico del potere gestionale centrale.
La conseguenza è che tutto è ritornato a dipendere dai funzionari ministeriali e regionali, ignari della vita reale della scuola. La scuola cioè oggi come ieri ridotta ad ufficio burocratico, quindi vincolato al rispetto (apparente) delle forme, ma indifferenti alla sostanza. Sì, qualcuno potrebbe dire che l’estensione delle prove Invalsi dovrebbe garantire il contrappeso della “cultura dei risultati”, la quale dovrebbe fare da pendant al controllo centralistico dei processi. Ma solo chi non conosce la scuola reale può vivere in questa illusione. Del resto, è noto che chi vive nell’illusione non sa di vivere in un’illusione. Come dire: la coscienza del sogno è il risveglio. Cioè, potremmo aggiungere, l’autoriforma. Cosa impossibile, com’è facile intuire. Vedendo poi che i politici, in sempiterna campagna elettorale, si guarderanno bene dal ripetere l’errore della Buona Scuola, di inimicarsi cioè un mondo che vive tra la passione di molti, ma anche tra privilegi e comportamenti contraddittori.
Il mondo sindacale sogna ancora di avere un ruolo di mediazione, ma la conseguenza è l’ulteriore distacco dal sentimento sociale. Perché, accanto alla conferma che la scuola vive grazie alla dedizione e preparazione di tanti presidi e docenti, l’egualitarismo non attira più nessuno, per cui non vediamo barricate sociali e mediatiche per consentire a presidi e docenti una retribuzione, diremmo, almeno adeguata alle responsabilità riconosciute. È finita cioè un’epoca, ma non tutti se ne sono ancora accorti. A quando, ad esempio, un’integrazione a livello europeo dei sistemi formativi, visto il destino glocale dei nostri giovani in gamba?
In questo contesto dunque ritorna il centralismo, con esasperazioni burocratiche che non hanno eguali. Perché questo centralismo? Anzitutto perché gli uffici centrali e periferici, in tal modo, giustificano la loro stessa esistenza. E poi per il solito refrain: ci sono scuole e regioni — si dice — che senza una gestione centralizzata sarebbero nel caos. Una bella scusa. Perché, se fosse vero, chi fa il proprio dovere si troverebbe penalizzato per altrui responsabilità. Non si fa mai di tutta un’erba un fascio, né in un senso, né in qualsiasi altro.
Al fondo, al di là di uffici che hanno il solo obiettivo di giustificare la loro esistenza, ciò che manca è la reciproca fiducia nel concetto di responsabilità, la quale è sempre e anzitutto personale. E responsabilità significa anche diritti e doveri, valori e rendicontazione sociale, compresi i possibili riscontri negativi, cioè le penalità.
Così si arriva al punto. Ciò che manca è un sistema ispettivo indipendente, non mera emanazione degli stessi uffici burocratici, ma organo terzo.
Così, di illusione in illusione, gli anni passano. Se la scuola vive solo grazie al valore di presidi e docenti, nel frattempo sta crescendo in modo esponenziale la pressione sociale, in primis dei genitori. Con attenzioni positive, ma, a volte, con pressioni indebite. Il motivo è semplice: la qualità della formazione è e diventerà sempre più il differenziale per la mobilità sociale, ed il vero discrimine del valore dell’uguaglianza, come pari opportunità.
Quindi quella pressione dei genitori sarà, giustamente, sempre più evidente. Se gli uffici centrali e periferici conoscessero la scuola reale saprebbero ad esempio che nelle scuole, e non solo tra docenti e non docenti, vi sono discussioni sul valore e sui limiti dei propri presidi, i quali hanno la responsabilità di essere punto di riferimento e di orientamento, cioè interfaccia anche sociale. Perché non introdurre l’assegnazione triennale di un preside da parte, ad esempio, di un consiglio di istituto?
Lo stesso sui docenti, con richieste anche scritte per avere, per i propri figli, i docenti migliori, come sui migliori dsga, e sul personale di segreteria e collaboratori.
Per i presidi possiamo dire che è fallita la dirigenza unica, in particolare per buona parte delle ex maestre che si trovano a dirigere nelle scuole superiori. Mentre il compito e la finalità di un ruolo assegnato dovrebbe essere quello di mettere la persona giusta al posto giusto. Gli obiettivi assegnati ai presidi dagli Usr, quindi anche la ventilata valutazione, per come sono impostati, in realtà sono anche queste dei paraventi, delle finzioni.
Troveremo mai un movimento politico che si faccia capace di rappresentare queste nuove domande sociali, al di là del solito “dimmi quello che vuoi sentirti dire”? O dobbiamo attenderci, in forma ovviamente diversa, un nuovo ’68?