E’ un intellettuale indipendente ma certo non avverso al regime. E’ Mo Yan, fresco vincitore del Nobel per la letteratura con la motivazione: “con un realismo allucinatorio fonde racconti popolari, storia e contemporaneità”. “Mo Yan” e’ un falso nome, che in cinese significa “Non parlare” , il suo vero nome e’ Guan Moye. Classe 1955, Mo Yan è originario della regione rurale dello Shandong che ha fatto da sfondo a moltissimi dei suoi romanzi. Al contrario dell’altro cinese, il primo che ha vinto un premio Nobel per la letteratura, Gao Xingjian, che vive in Europa da più di 20 anni e critica apertamente il regime, Mo Yan vive in Cina e le sue critiche alla società e al sistema politico cinese sono indirette. Nelle sue opere pur non criticando apertamente il sistema, non condivide comunque alcune scelte del governo, come la politica degli figlio unico, che Mo Yan ha contestato nella sua opera Le rane. È autore di sette romanzi, tra cui Sorgo rosso, una dozzina di racconti, e numerose storie brevi. Dai primi due capitoli di Sorgo rosso ha ricavato la sceneggiatura per l’omonimo film Zhang Yìmóu, vincitore dell’Orso d’Oro al Festival di Berlino nel 1988. Per IlSussidiario.net abbiamo contattato Francesco Sisci, a Pechino per Il Sole 24 Ore.
Sisci, come valuta l’assegnazione del premio Nobel a Mo Yan?
E’ uno scrittore di grande successo e ha una notevole influenza nel Paese: ha inaugurato un genere che si basa su una sorta di realismo magico in cui vengono descritte storie della campagna cinese che sembrano quasi assurde ed incredibili. Indubbiamente è uno scrittore di grande valore.
Quali sono i rapporti fra Mo Yan e il Partito comunista?
E’ uno scrittore non perfettamente allineato, di regime, come si potrebbe dire. D’altra parte, non è nemmeno dissidente come, del resto, quasi tutti gli autori in Cina: il Partito è stato abbastanza astuto da acconsentire, all’interno del Paese, che la letteratura si ricavasse uno spazio, una nicchia. Una mossa che ha permesso l’avvicinamento fra gli scrittori e il regime.
L’Accademia di Stoccolma ha scelto un autore che critica la Cina?
Mo Yan non è da considerare un autore dissidente e nemico del Governo che va a caccia di fatti o episodi che possano infastidire il regime, ma nemmeno racconta ciò che il Partito desidera sentirsi dire a tutti i costi. Non è una letteratura di regime.
Qual è l’idea di Cina che i testi di Mo Yan ci restituiscono?
Per fare un esempio, possiamo dire che Mo Yan ha adattato il realismo magico sudamericano al Paese di Pechino. E’ una specie di Gabriel Garcia Marquez cinese e, sotto questo punto di vista, è affascinante perché se la tecnica può essere simile il risultato è molto differente: del resto, la Cina è diversissima dall’America Latina. Le sue descrizioni si basano sul racconto della campagna cinese e le storie difficili e complicate che racchiude: insomma, un realismo pieno di forza.
Mo Yan è molto conosciuto e letto in patria?
Sì, è letto e molto venduto. Se vogliamo è il contrario di Gao Xingjian, che da molti anni vive in Francia perché costretto all’esilio, primo cinese a vincere il Nobel nel 2000 ma praticamente sconosciuto in patria.
Quali possono essere i motivi che hanno portato Stoccolma a preferire Mo Yan al più conosciuto e commerciale Murakami?
Credo che sia per il fatto che il Giappone ha già vinto molti Nobel per la letteratura, ricordo Yasunari Kawabata o Kenzaburo Oe mentre la Cina ne ha vinti solo due. E’ insensato che un Paese così esteso con una letteratura forte e un mondo culturale tanto vivace non sia stato fin qui riconosciuto dal resto del mondo; in fondo, il Nobel per la letteratura è anche una sorta di promozione, non solo di un autore o di un’opera, ma soprattutto di una letteratura nel mondo. Paradossalmente, la non promozione della letteratura cinese da parte dell’Accademia di Stoccolma era un fatto che, alla lunga, non avrebbe escluso Pechino ma Stoccolma.