Forse nessun altro scrittore italiano come Foscolo è stato lacerato dal contrasto tra l’eredità ideologica della sua formazione culturale e le esigenze più profonde del suo cuore: da una parte si accampa in lui l’adesione alle dottrine sensistiche e materialistiche del suo tempo, dall’altra emerge il desiderio prepotente di qualcosa che sfondi il perimetro limitato dei sensi e della ragione. Il materialismo settecentesco, nel quale si era formato, rinnegava quell’aspirazione all’infinito, a quegli ideali cui dava il nome di libertà, patria, verità, bellezza, e dei quali egli, tuttavia, avvertiva misteriosamente la presenza. “La ragione gli diceva che erano illusioni, ma il cuore non si rassegnava a considerarli tali”, ha scritto Pazzaglia.
A testimonianza di quanto sia feconda la contraddizione nei poeti, Foscolo fece di questo contrasto il nucleo profondo della sua arte, che chiama “chiaroscuro” nella Notizia bibliografica, pubblicata in appendice all’edizione delle Ultime lettere di Jacopo Ortis del 1816. Nel romanzo, che l’autore definirà “il libro del mio cuore”, si scaglia contro i limiti di una concezione arida della ragione, responsabile di una riduzione intollerabile del desiderio umano, definito, sempre nella Notizia bibliografica, “il principio e il termine di tutte le nostre agitazioni”. E, in una pagina famosa dell’Ortis, aggiungerà: “Illusioni! grida il filosofo…Illusioni! ma intanto senza di esse io non sentirei la vita che nel dolore o (che mi spaventa ancor più) nella rigida e nojosa indolenza: e se questo cuore non vorrà più sentire, io me lo strapperò dal petto con le mie mani, e lo caccerò come un servo infedele”.
Nessun dubbio che il filosofo denigrato sia quello illuminista, incarnato nel romanzo da Odoardo, il rivale in amore di Jacopo, e suo esatto opposto. Come ha scritto Affinati, “Foscolo non accetta fino in fondo le conseguenze del materialismo che pure proclama; il cuore gli impone sempre un’altra via”. La contraddizione tra questi due piani del pensiero, che normalmente potrebbe produrre dubbio e paralisi, fa scattare in Foscolo una domanda inesauribile di significato. Nel carme Dei Sepolcri, egli rivede la sua posizione inizialmente indifferente circa l’esistenza di una legislazione sui cimiteri: improvvisamente intuisce la centralità della questione, capace di sollevarsi a cifra del destino. L’opera inizia con una domanda, come se l’autore stesso fosse alla ricerca di una risposta: forse la morte può essere meno dolorosa, se confortata dai cipressi e dal pianto delle persone care? Nonostante l’inevitabile risposta negativa, la tesi materialistica viene incrinata nei versi 23-5 da un ma imperioso, considerato da Di Benedetto un vero e proprio modulo interpretativo del carme.
Anche l’obiezione alla tesi principale viene svolta in forma di domanda: perché l’uomo dovrebbe negare a se stesso questa possibilità di sopravvivenza oltre la morte, questa “corrispondenza di amorosi sensi” tra l’estinto e i superstiti? Inestinguibile nell’uomo è “l’ardore di amare e di essere amato”, come dirà nell’Orazione sull’origine e i limiti della giustizia, pronunciata a Pavia nel 1809. Per ricordare, afferma il poeta, l’uomo ha bisogno di oggetti, anche infimi, come un sasso, delle tombe; essi lo aiutano a far memoria di avvenimenti e persone. Le tombe dei grandi, poi, lo spingono a emularne le imprese.
Quando leggo i Sepolcri in classe, spiego ai miei studenti quanto mi sembri profondamente umano il desiderio dello scrittore di poter contare su un segno fisico, come una tomba, per comunicare con i propri cari defunti. A volte, recandoci in un cimitero, avvertiamo l’esigenza di toccare la fotografia o la lapide, inviando un saluto a chi non vediamo più, per superare la barriera della morte, per esprimere un cordoglio, un rimpianto, un affetto. Lo diceva bene C. Milosz: “Sono solo un uomo, ho quindi bisogno di segni visibili, costruire scale di astrazioni mi stanca presto”. I miei giovani studenti sembrano cogliere questo bisogno di partecipazione, così bene espresso da Foscolo, tanto universale da attraversare tempi e culture. Ogni lettore, quando legge, legge se stesso, affermava Proust. Scrive una ragazza in un tema sull’argomento, assegnato poco tempo dopo la lezione: “andare a far visita ai propri cari al cimitero è una cosa che al giorno d’oggi non si fa quasi più; ebbene, io ci vado e quando mi trovo lì rimpiango quei momenti in cui mi recavo a visitare mio zio, gravemente malato, all’ospedale. Mia zia, invece di farmi stare con lui, portava me e mio fratello a fare un giro e ancora oggi, dopo due anni, mi incolpo di non aver mai detto ‘no’ a quel giretto insignificante e di aver perso la possibilità di trascorrere anche cinque minuti in più con mio zio”.
Una diciassettenne dava prova di possedere una capacità di giudizio superiore a quella di un’adulta, la quale, pur con l’intenzione, in sé buona, di proteggerla, l’aveva allontanata dalla realtà; insieme, testimoniava la capacità della grande poesia di arricchire la nostra umanità. Raccontando in un tema l’episodio che l’aveva toccata, lo riscattava dalla nebbia dell’istante e ce lo donava nell’accoramento del ricordo.