Nella storia del pensiero europeo la «verità sull’uomo» formulata dal Concilio Vaticano II rappresenta una svolta epocale. Con i due testi della Gaudium et spes e della Dignitatis humanae personae i Padri conciliari hanno fornito una risposta decisiva a due sfide che stanno all’origine dell’intero sviluppo della cosiddetta modernità. La prima veniva da un modo erroneo di distinguere il mistero dell’uomo dal mistero di Dio ed aveva le sue radici nell’incursione che l’antropologia islamica (averroista) aveva operato nel pensiero cristiano alla fine del XIII secolo dando origine ad un filone di pensiero dualista che si prolungherà fino alle soglie del Vaticano II. La seconda proveniva da un modo altrettanto errato di congiungerli, estenuando fino all’inconsistenza la natura umana nel tentativo di ricostituire l’unità dell’uomo e di Dio nella fede, e di essa furono araldi i vari protestantesimi. Il Vaticano II riscrive al dritto sia il modo dell’unità sia quello della distinzione. Da questo punto di vista si potrebbe dire che il Vaticano II guadagna nell’ antropologia quel che il Concilio di Calcedonia aveva guadagnato nella Cristologia. Quello aveva mostrato come Gesù Cristo sia in maniera indivisibile e inconfusa vero Dio e vero uomo, questo mostra come in Cristo «vero uomo» (perfectus homo) ogni uomo può ritrovare la verità dell’umanità propria.
L’intento è dichiarato apertamente: «È l’uomo dunque, ma l’uomo integrale (unus ac totus), nell’unità di corpo ed anima, di cuore e coscienza, di intelletto e volontà, che sarà il cardine di tutta la nostra esposizione» (GS 3). Il centro dell’interesse è l’uomo. Su questo centro gravitazionale si incontrano i due artefici maggiori della «verità sull’uomo» che troverà espressione nella Costituzione Gaudium et spes: Henri de Lubac e Karol Wojtyla. Scrive a tal proposito De Lubac: «Avevo conosciuto monsignor Wojtyla a Roma ai tempi del Concilio. Avevamo lavorato fianco a fianco, all’epoca del difficile parto del famoso schema 13, divenuto dopo numerosi rimaneggiamenti precipitosi la Costituzione gaudium et spes. (…) Avevamo simpatizzato in fretta».
Che cosa univa in un giudizio comune questi due uomini provenienti da due mondi così distanti? Entrambi avevano visto nei due totalitarismi del novecento il fallimento eclatante dell’umanesimo ateo. Entrambi ritenevano che la causa dell’allontanamento dell’uomo da Dio non fosse stata l’eccesso di accento sull’umanità dell’uomo. Entrambi erano intellettualmente, esperienzialmente e spiritualmente convinti che la via da percorrere fosse quella di un ritrovamento della «verità sull’uomo» e che tale via fosse percorribile solo ripartendo dal mistero di Dio partecipatosi in Gesù Cristo.
Il passo citato sopra della Gaudium et spes è uno dei due binari, l’altro lo troviamo nel paragrafo 10: «La Chiesa crede che Cristo, per tutti morto e risorto (cf. II Cor 5, 15), dà sempre all’uomo, mediante il suo Spirito, luce e forza per rispondere alla suprema sua vocazione; né è dato in terra un altro nome agli uomini in cui possano salvarsi (cf. At 4, 12). Crede ugualmente di trovare nel suo Signore e Maestro la chiave, il centro e il fine dell’uomo nonché di tutta la storia umana».
Il criterio di fondo che se ne ricava e al quale Wojtyła darà ampio seguito nel suo pontificato è che antropocentrismo e cristocentrismo non solo non si escludono l’un l’altro, ma che si richiamano a vicenda. Dall’impugnare metodologicamente questo criterio nascerà un modo nuovo di dire “uomo”. Da questo punto di vista, coloro che accoglieranno in maniera retta l’antropologia del Vaticano II, si distingueranno in maniera incontrovertibile per il modo in cui pronunceranno proprio la parola “uomo”: fuori dal pessimo dualismo in cui si era cacciata la “neoscolastica” al seguito di una erronea interpretazione di san Tommaso e altrettanto fuori dall’unità fideistica propugnata dalla Riforma, che a causa dell’unilateralità di accento aveva inintenzionalmente originato l’antiumanesimo dei secoli XIX e XX.
Henri de Lubac aveva già posto le premesse del punto di unità della «verità sull’uomo» nel suo studio, fondamentale per tutto il novecento cattolico: Il mistero del soprannaturale. Karol Wojtyła si impegnerà negli anni successivi al Concilio a dar seguito a quella antropologia unitaria recuperando la verità centrale sull’uomo che è racchiusa nel suo essere persona. Così scriveva nel febbraio del 1968 all’ormai suo amico De Lubac: «Dedico i miei rarissimi momenti liberi ad un lavoro che mi sta a cuore e che è consacrato al senso metafisico e al mistero della persona. Mi sembra che il dibattito si ponga attualmente a questo livello. Il male del nostro tempo consiste in primo luogo in una specie di degradazione, addirittura di polverizzazione dell’unicità fondamentale di ogni persona umana. Questo male è molto più di ordine metafisico che di ordine morale. A questa disintegrazione talvolta pianificata da ideologie atee, noi dobbiamo opporre, invece di sterili polemiche, una specie di “ricapitolazione” del mistero inviolabile della persona. Credo fermamente che le verità battute in breccia si impongano con maggior evidenza a quelli che ne sono spesso vittime involontarie …». L’anno successivo uscirà il testo unanimemente riconosciuto come il suo capolavoro: Persona e atto.
Per intendere quanto questa linea che univa Henri de Lubac e Karol Wojtyła fosse rilevante, è sufficiente riprende un passaggio cruciale del discorso di chiusura del Concilio, tenuto da papa Paolo VI: «L’umanesimo laico profano alla fine è apparso nella terribile statura e ha, in un certo senso, sfidato il concilio. La religione del Dio che si è fatto uomo s’è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio. … Date merito al concilio in questo almeno, voi umanisti moderni, rinunciatari alla trascendenza delle cose supreme, e riconoscerete il nostro nuovo umanesimo: anche noi, noi più di tutti, siamo i cultori dell’uomo» (7.12.1965). E poi ancora: «Per conoscere l’uomo, l’uomo vero, l’uomo integrale, bisogna conoscere Dio» (ibidem).