Forse i teddy boys nostrani raccontati da Pasolini in La nebbiosa – sceneggiatura di film commissionata e mai portata sullo schermo, editata recentemente dal Saggiatore – sono uno dei principali segni di importazione culturale post-bellica e di omologazione della nostra identità. È – omologazione – il termine caro all’autore, grazie al quale egli sintetizza il fenomeno maturato sul suolo patrio negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, e che si svilupperà sempre più vistosamente, dai primi anni Sessanta in poi, come lo scivolamento drammatico e irreversibile della nostra società per lo più contadina verso l’assuefazione al potere consumistico.
Un potere strisciante da cui, se Pasolini vede le colpe fondamentali nelle posizioni opportunistiche e ignave della Dc, la sinistra italiana non può ritenersi vergine.
Negli anni Cinquanta – afferma l’autore – l’egemonia culturale era del Pci con un’autorità che gli proveniva direttamente dalla Resistenza. Autorità secondo Pasolini che se non avesse con assoluta ostinazione ideologica svilito la cultura che un popolo di contadini e piccolo-borghesi si portava dietro da sempre, identificandola tout court con la cultura della classe dominante, ovvero potere “clerico-fascista”, avrebbe forse potuto svolgere il ruolo che la Dc, sempre secondo lui, aveva completamente perso.
Verso la fine degli anni Cinquanta (1959) Pasolini colloca, sullo sfondo di una Metanopoli che “saliva”, la narrazione di alcune vicende di giovani legati tra loro secondo rituali e stili che la stampa d’oltre Manica rimanda come diffusa nella working class youth: i Teddy boys.
I Teddy boys, caratterizzatisi soprattutto dal ’50 al ’58 in alcune grandi metropoli anglosassoni (Manchester, Londra) e definiti icasticamente “Coltelli a serramanico, musica da ballo e completi edoardiani” secondo quanto titolava The Daily Mirror’s nel ’53, avevano deciso con il loro “stile” di rispondere ad un mondo noioso.
Sempre così, ma ad un più alto livello, ovvero a quello delle sartorie di Savile Row si era voluto rispondere all’austerità portata dal governo socialista negli anni successivi alla seconda guerra mondiale. È appunto qui che si documenta l’ambiguità: stile affettato e pure costoso (una giacca poteva costare ad un giovane ted, nei giorni feriali commesso spedizioniere, anche 50 sterline, allora non poco), “rubato” alla upper class per esprimere un assoluto contrasto con ogni regola e norma che essa potesse dettare. Quasi di norma, i ritrovi di quelle che in definitiva risultavano essere vere e proprie gangs di adolescenti finivano in incidenti e ferimenti.
Nel ’56, durante la proiezione del film Blackboard Jungle e al suono di Rock around the Clock, i teds ivi convenuti si misero improvvisamente a ballare con le loro ragazze per i corridoi della sala cinematografica e, quando si tentò di fermarli, partì una vera sommossa con tanto di sedili fatti in mille pezzi, grazie agli immancabili coltelli al seguito.
Questo particolare atteggiamento, violento e devastatorio, nonché di bullismo sessuale e di gruppo, è ciò che La nebbiosa vuole descrivere attraverso un continuo vai e vieni per gli scenari urbani milanesi, in auto o in moto, dei teds nostrani con partenza da Metanopoli e − dopo un girovagare infinito lungo l’arco della notte di Capodanno − con conclusione a san Siro, dopo uno sparo e la morte di uno di loro.
Nella sceneggiatura pasoliniana, in evidente comunanza con quanto descriveva della Metropoli in quegli anni il ciclo testoriano dei Segreti di Milano, emerge il vissuto personale dell’autore incapace di accettare questa “modernità” di cui la città con le sue periferie e i suoi casermoni, ma anche coi suoi quartieri semiresidenziali ma stranianti eppure in pimpante costruzione, come la Metanopoli voluta da Mattei per i suoi dipendenti e dirigenti, vuole essere allucinata espressione. La prima cosa che colpisce e che fa dell’autore un vero profeta del disagio giovanile come poi si manifesterà macroscopicamente è l’incipit della vicenda narrata, in cui il fratello maggiore sadicamente gioca a terrorizzare il fratello minore, legandolo al letto e lanciandogli freccette ai lati perché – vien fatto notare − i genitori sono assenti. Anche se è la notte di Capodanno.
Assenza a fin di bene: la madre a compiere un’opera cristianamente ispirata, e il padre con lei. Irridendo ad un cristianesimo formale e pietistico in realtà si narra di una famiglia che non esiste, di figure genitoriali incapaci di stare al loro posto. Eppure è una così detta famiglia-bene: si vedrà poi da alcuni particolari che lo status del figlio sadico e violento, capo della gang di teds, è discretamente alto. Uno status che, sulla linea della noia e del bisogno di “fare” qualcosa tanto per farla e non perdersi nel vuoto che la casa ormai esprime, si incontra perfettamente con lo status decisamente inferiore di amici e compagni. Espressivo del senso di rimpianto per la normalità proprio dell’autore c’è la costante del fratellino piccolo che − per paura di restare solo a casa − si accompagna alla banda ed assiste a quasi tutte le azioni spericolate e violente.
Questa figuretta che partecipa involontariamente sembra avere lo scopo, con la sua sola presenza, di permettere a Pasolini di riportare l’allucinazione collettiva cui si assiste, sul piano dell’umano, alle sue dimensioni ordinarie e affettive; sarà proprio lui, il bambino, distrutto da una notte all’insegna dell’assurdo, a concludere la vicenda con l’assurdo dell’uccisione del giovane forse meno sbandato del gruppo.
Attraverso questa sua opera Pasolini va così ancor più a fondo del problema di una “mutazione antropologica” degli italiani. Quella che, passando dagli anni dei jeans Roy Rogers arriva a quelli dei reality MTV di oggi, dove essere ragazzi, anche se mascherato da interessi sportivi, è incentrato sull’ostinata fissazione voyeuristica per corpi ben fatti, e ci fa domandare cosa realmente ci è costato il nostro benessere.