Quest’anno al liceo classico la seconda prova dell’esame di Stato, come si sa, prevede la traduzione dal greco: è un dato di fatto che questa seconda prova (un po’) spaventi sempre. Si ha l’impressione di non poter far nulla per prepararsi, come avviene invece per la terza prova e per l’orale, ma nello stesso tempo di non poter evitare il rischio, barcamenandosi in qualche modo “senza infamia e senza lode”, come magari si può ipotizzare per la prima prova.
La versione sarà corretta, insieme ad altri colleghi, dal docente della materia, che è interno, ovvero ha insegnato durante l’anno (e in molti casi anche nei due anni precedenti) agli studenti di cui correggerà i compiti. Gli studenti perciò gli hanno già più volte nel corso dell’anno, o degli anni, posto la domanda: “Prof.! Ma lei come la vuole la traduzione, letterale o libera?” la domanda è sempre imbarazzante, infatti la risposta è di solito imbarazzata: “Tutt’e due! Fedele ed elegante!”.
Perché la domanda è imbarazzante? Perché lo studente sembra volersi autorelegare in un ruolo puramente esecutivo e non di protagonista. In verità chi traduce compie non un atto meccanico ma un atto creativo: perciò, se entro certi limiti è corretto e forse doveroso tener conto del destinatario del proprio lavoro (in questo caso il professore, che infatti correggerà ciò che non gli risulterà adeguato alle sue aspettative), la focalizzazione non può essere su come “vuole” l’altro, il professore, ma su ciò che vuole il soggetto (lo studente che traduce). Nel corso degli anni lo studente ha acquisito degli strumenti (come li acquisisce un poeta, o un attore di teatro, o un artigiano), ora li deve utilizzare come meglio crede, sfruttando anche quei “trucchi” che, come un apprendista a bottega, ha potuto carpire dal suo maestro.
Non c’è nessuna contraddizione tra spontaneità e preparazione rigorosa, anzi la prima è favorita, se non addirittura resa possibile, dalla seconda (basta pensare alla recitazione di un buon attore a teatro). Spesso però si tende a dimenticare proprio che tradurre è un atto creativo. Non è la stessa cosa decifrare in modo corretto le istruzioni, forniteci in lingua straniera, per l’assemblaggio di un oggetto e tradurre un passo di Platone o di Isocrate. Nel primo caso infatti si tratta di un testo referenziale (potremmo dire: informativo), che raggiunge il suo scopo se ha una sola possibilità interpretativa (per es. la vite A deve essere utilizzata con il bullone B), mentre nel secondo caso si tratta di un testo letterario (il linguista direbbe poetico), che per sua natura può prestarsi a interpretazioni, o almeno a sfumature interpretative, diverse.
Perciò nel primo caso si deve “tradurre” per capire il senso, mentre nel secondo caso bisogna capire il senso per poter tradurre bene. Capire il senso e tradurre sono infatti due momenti diversi, anche se interdipendenti. Il senso di un testo emerge dopo un’analisi precisa, dopo un’indagine attenta sulle possibili valenze dei vocaboli presenti ecc., ma la traduzione vera è un momento successivo: non puoi scrivere un testo senza sapere bene che cosa vuoi dire.
Vorrei portare due esempi che chiariscano quanto ho appena detto.
1. La prova d’esame di Stato del 2008 è stata tratta da un testo di Luciano, nel quale si utilizza, a un certo punto, l’espressione “chiamare fico il fico e barca la barca”. In questa situazione si poteva certo lasciare una traduzione letterale, ma il senso del testo, evidentemente, equivale al nostro “dire pane al pane e vino al vino”; la traduzione più adeguata è quella che permette l’immediata comprensione.
2. Qualche tempo fa ho assegnato da tradurre ai miei allievi un passo dal Menesseno (dialogo di Platone da cui è stato tratta anche la versione di maturità del 1972), aiutandoli a ricordare (lo avevamo studiato tempo prima) che il testo è con tutta probabilità una sorta di parodia dei tradizionali elogi funebri che annualmente erano pronunciati per commemorare i caduti in guerra. Infatti l’incarico di preparare l’orazione era affidato ai migliori oratori, ma Platone, per bocca di Socrate, sembra dirci che non occorre tanto ingegno per comporre un testo che ripete sostanzialmente luoghi comuni. Gli studenti più attenti hanno saputo non semplicemente trasporre da una lingua all’altra ma, attraverso scelte personali, sono riusciti a suggerire sfumature ironiche, proprio come Platone stesso aveva fatto.
La maggior parte degli studenti, se non ha avuto in precedenza il coraggio di osare, di prendere il largo rischiando un significato (da verificare poi però in modo rigoroso) si ritrova impacciata e aggrappata al vocabolario (che è un puro strumento e, come tale, un utile – talvolta utilissimo – idiota). È assolutamente necessario comunque anche per i più timorosi prevedere due momenti di traduzione, traducendo in modo definitivo solo dopo aver capito.
Consiglierei perciò di non perder tempo, ma, dopo aver decifrato il testo, e verificata la correttezza della propria decodificazione, di rileggere lentamente cercando appunto di capire il significato che il passo vuole veicolare. A questo punto è indispensabile l’interpretazione, che mette in gioco non solo la personalità dell’autore (potrebbe essere anche un illustre sconosciuto) ma anche la sensibilità del lettore-traduttore, che esprimerà nel modo ritenuto migliore quanto ha capito. Eventualmente si potrà giustificare con un’opportuna nota la propria scelta (attenzione: mai riportare nel testo una traduzione alternativa tra parentesi).
È ovvio che la libertà nella traduzione non può essere arbitrio: si tratta di esprimere meglio quello che l’autore − e non il lettore! − pensa.
La cosiddetta traduzione letterale, cioè perfettamente ricalcata sulle strutture del testo greco, rimane “l’ultima spiaggia” quando non si fosse capito bene il significato del passo: può succedere, e in tal caso consiglierei di rimanere effettivamente appiattiti sulla correttezza grammaticale della traduzione, in sostanza delegando al (buon cuore del) professore che dovrà correggere l’interpretazione adeguata.