La fisionomia che la presenza dei cristiani deve assumere nello scenario della realtà attuale fa molto discutere. Il dibattito recente ha evidenziato come via centrale l’approdo alla riconquista della dimensione della libertà religiosa. Solo un tradizionalismo abbarbicato alle forme storiche di un passato lontano si rifiuta di riconoscere che si è ormai dissolto il cemento unificatore di una cristianità condivisa. La comunità di fede dei credenti in Cristo non si identifica più con la totalità della comunità sociale, organizzata nella sua rete di istituzioni e nei suoi vertici di potere.
L’appartenenza alla Chiesa si è staccata dai contenuti della cittadinanza civile e nello spazio della medesima comunità profana convivono fedi, ideologie e identità che entrano in contrasto tra loro, si confrontano e polemizzano anche aspramente. La rottura dell’unità culturale, imposta dall’evoluzione implacabile della storia, impedisce di continuare a fare della professione di un unico credo il pilastro della solidarietà dei legami su cui si fonda l’ordine politico secolare.
È una situazione decisamente inedita, ben diversa da quella a cui ci avevano abituato i secoli precedenti. La sua radicale modernità viene facilmente fatta derivare dalle metamorfosi che hanno trionfato solo al culmine del Novecento più avanzato. È allora che diventa definitiva la fine di un lungo ciclo storico: il disincanto della secolarizzazione portava a marginalizzare la religione e indeboliva la sua capacità di plasmare l’etica collettiva, fondata su una piattaforma giuridica obbligante, sul conformismo di una disciplina in cui la religione si faceva anche politica, presentandosi nelle forme di “religione civile”.
La presa di coscienza della necessità di adattarsi a un modo diverso di mettere in rapporto la libera adesione dell’individuo all’annuncio della fede con le sfide della moderna società laicizzata e “plurale” è uno dei guadagni resi possibili dal ripensamento incoraggiato in tutto il mondo cattolico dal Vaticano II. All’interno della sua formidabile produzione di pronunciamenti autorevoli, si staglia il rilievo da attribuire, nella cornice dei problemi di cui stiamo parlando, alla Dignitatis humanae: la dichiarazione conciliare dedicata proprio al tema della libertà religiosa. Sul suo significato profondo ha avuto occasione di intervenire più volte, fra gli altri, Massimo Borghesi, a margine del suo stimolante volume Critica della teologia politica. Da Agostino a Peterson: la fine dell’era costantiniana (Marietti 2013).
Qui la lettura della svolta novecentesca si unisce a una reinterpretazione d’insieme del senso individuabile nell’intero profilo storico dell’incarnazione del cristianesimo nel cuore dell’Occidente: la rottura dell’unità tra politica e religione, il ritorno al dualismo che mette in tensione l’ordine della fede e il governo del cosmo sociale, non sono visti come una perdita che ha deformato solo negativamente la solida integrità del mondo cristiano, ma come un passaggio purificatore, che ha riportato la coscienza cristiana allo spirito agostiniano più originario della distinzione tra le due Città, aiutando a spazzare via gli errori e le cadute che l’impasto della fede con la tradizione prima romana, poi barbarica, medievale e protomoderna aveva finito con l’alimentare già da una data molto precoce.
Da storico, vorrei solo tentare di introdurre nel discorso qualche ulteriore elemento di riflessione. La prima osservazione è che nei processi di evoluzione delle civiltà occorre mantenersi sempre molto prudenti nell’accentuare le discontinuità. I traumi rivoluzionari sono l’eccezione, mentre, di regola, l’avanzata del nuovo matura dentro un connubio strettissimo con i resti del vecchio che si prolunga e continua a esercitare la sua forza di condizionamento. Ciò che cambia, è spesso il frutto di una lenta lievitazione, che fa crescere ed espande capillarmente le scelte vincenti proiettate verso il futuro. Anche la svolta religiosa dell’ultimo Novecento, con la fuoriuscita dal modello della cristianità politicizzata e il recupero del senso della “alterità” del fatto cristiano, non va solo sottolineata come un punto di non ritorno, ma anche ricostruita nella sua genesi, nei suoi legami con le tendenze e gli sviluppi che avevano cominciato a delinearsi nelle fasi storiche anteriori, riconducendola, quindi, a un retroterra denso di fatti, di passi compiuti, di idee e valori messi in campo da tanti attori diversi, che non possono essere compressi nell’economia di una elaborazione teologico-politico-filosofica circoscritta nei confini limitati dei vertici gerarchici della Chiesa di Roma, del resto tutt’altro che omogenei e solidali al loro interno.
La fresca volontà di aggiornamento dei padri conciliari del Vaticano II aveva essa stessa le sue radici. Non è stata l’irruzione di una energia totalmente controcorrente, che ha aggredito un mondo religioso statico, bloccato a ogni livello sulle sue posizioni antiquate. Anche il recupero del dualismo Chiesa-ordine mondano, con il rientro negli argini maestri della libertà religiosa, più che nei termini di una crisi di rottura, può essere letto, in stile ratzingeriano, come l’ultima emersione, cioè come il venire pienamente a galla e il lucido sistematizzarsi di un’esigenza che aveva cominciato a covare sotto la coltre della sacralità edificata nel modello “costantiniano” (che però con l’editto di Costantino non ha un nesso veramente decisivo).
Nel grembo della cristianizzazione tardoantica e medievale, potere mondano e principio religioso, norma cristiana e leggi umane, Chiesa e società secolare erano stati spinti a camminare gli uni verso gli altri, inglobandosi in una vicenda comune, che ha avuto i suoi costi e i suoi risvolti certamente problematici. Ma proprio la spinta alla simbiosi, nel momento in cui la società religiosa e quella secolare hanno cominciato a consolidarsi nelle loro strutture e nei loro supporti di autorità, ha fatto sentire il limite di ogni abbraccio soffocante tra le due sfere, innescando — già nel seno della cristianità tradizionale — frizioni e slittamenti verso il ripristino di barriere difensive di separazione. Questi attriti sono la preistoria remota di ogni atteggiamento critico nei confronti della (discutibile) utopia di un Paradiso troppo schiacciato sulla terra: sia quando essa sognava una Chiesa dilatata fino a fagocitare la società mondana, sia là dove vincevano le pretese di una gerarchia terrena dispoticamente auto-promossa ad arbitro assoluto del bene religioso dei sudditi.
Un passaggio fondamentale che ha aiutato a fare chiarezza è stato la cosiddetta lotta per le investiture dei secoli XI-XII, sullo sfondo della competizione tra Papato e Impero che volevano espandere l’area delle loro giurisdizioni di potere e cominciavano a premere per guadagnare margini sempre più cospicui a favore della loro sussistenza autonoma. Il dibattito sul rapporto tra i due ordini di autorità, non a caso, è un fenomeno interno alla fusione della Respublica christiana, dentro l’instabile tendenza al monismo ierocratico medievale. Dopo le nuove fratture provocate dall’avanzata della Riforma protestante e con il delinearsi, in senso alternativo, del Rinnovamento cattolico, le esigenze di compatta unità delle diverse società europee, inquadrate nelle reti degli Stati moderni, furono senza dubbio rilanciate.
Ma proprio sul fronte della massima enfasi data all’alleanza fra trono e altare vediamo esplodere i conflitti di giurisdizione come quelli che opposero san Carlo Borromeo alle autorità spagnole dello Stato di Milano, le vertenze di respiro internazionale legate alla legittimazione della monarchia inglese dopo l’Atto di supremazia, all’ascesa dell’ex calvinista Enrico IV sul trono francese, all’interdetto di Venezia, al perseguimento dell’ortodossia nei tribunali dell’Inquisizione in concorrenza con i poteri laici. Si comincia a teorizzare la “ragione di Stato” e si esalta il potere del Principe cristiano. Allo stesso tempo i teorici gesuiti mettono le armi della loro ingegnosa retorica al servizio della teoria moderna della potestas solo indirecta della Chiesa sulla realtà temporale, in cambio della sua irrinunciabile libertas nello spazio rivendicato come proprio territorio esclusivo.
La perfetta sovrapposizione tra i due ordinamenti, distinti e pure cooperanti, strettamente intrecciati quali erano, non esisteva neppure allora. Le fasi successive incrementarono le spinte dialettiche, costitutive di un ethos allenato a “dare a Cesare” senza confonderlo con il primato ontologico di Dio. Vennero i duri scontri settecenteschi, la secolarizzazione delle élites politiche, il regalismo assolutista degli Stati dell’Ottocento, la frattura della ideologizzazione camuffata nello slogan del “libera Chiesa in libero Stato”. Si rafforzarono, così, le linee di distacco e il dissidio di fondo tra società religiosa e società mondana. La Chiesa si rimetteva decisamente in movimento per riprendere un’iniziativa vigorosamente missionaria e far sentire il peso del proprio contributo dentro il progresso dell’ultima modernizzazione. Era chiaro che la Chiesa e il mondo cristiano non erano la stessa cosa. Stavano una di fronte all’altro, una dentro l’abbraccio dell’altro: due realtà o due princìpi diversi, che dovevano interagire, dialogare e modellarsi a vicenda, a volte anche combattersi per stabilire confini e concorrere a scopi che si rivelavano sempre meno coincidenti.
Senza queste premesse, sarebbe stato molto più arduo abbandonare il mito storico della cristianità monocentrica e giungere a riaffermare il valore della libertà religiosa come alveo per la salvaguardia dello specifico cristiano, prima e al di là della ricerca dell’egemonia per imbrigliare dall’alto il destino collettivo degli uomini. Ma la traiettoria era abbozzata da tempo. I suoi germi erano inscritti in un codice genetico da cui il realismo dell’Occidente non poté mai divorziare totalmente.