In molte scuole medie, nella settimana in cui si svolgevano i colloqui orali, si sono tenuti i tremendi e temutissimi collegi docenti di fine anno in cui, molto spesso, l’ordine del giorno prevede la discussione di documenti importanti che potrebbero cambiare il volto della scuola. Così, tra la stanchezza e il caldo, e purtroppo quasi senza accorgersene, i professori stabiliscono di che morte moriranno nei mesi a venire.
In particolare quest’anno quasi tutti gli insegnanti erano alle prese con l’ennesima urgentissima riscrittura della programmazione per competenze: pagine e pagine di parole che giungono al termine di corsi d’aggiornamento inutili e mai capaci di fare i conti con la realtà quotidiana della scuola; di parole che rimarranno solo sulla carta, che trasformano in burocrazia anche quello che potrebbe invece tornare utile per la scuola vera (ricordo: quando molti anni fa entrai nella scuola, facemmo corsi di docimologia, copiammo curricula dagli americani, trasformammo le programmazioni in lenzuoloni piegati in dodicesimi in cui ogni materia veniva smembrata in contenuti, tempi, cosa si fa, come si fa, chi lo fa ecc. ecc: torniamo ancora lì e me la spacci per una riforma?).
E dentro uno di questi collegi mi domandavo cosa aveva in testa Elisa, dentro il suo esame impeccabile, quasi da lode, quando mi ha detto che il poeta e la sua donna si vegetalizzano sotto la pioggia nella foresta; mi domandavo cosa avrebbe raccontato Rafael il giorno dopo nel suo colloquio, come avrebbe vinto il suo terrore Filippo e se mai quelle chiacchiere tra adulti che ci soffocavano nel pomeriggio di un giorno di fine giugno potessero davvero aprire una strada, disegnare un percorso migliore, utile e significativo per i miei alunni.
Chissà, magari riscrivere anche un senso diverso per gli esami di fine ciclo, come già si annuncia dal ministero (l’Invalsi sparirà dagli esami, tornerà ad avere un peso diverso il voto di idoneità che oggi vale quanto gli altri scritti e il colloquio: ma non era così prima che venisse introdotta l’Invalsi? Io ricordo che avevamo anche costruito una griglia con pesi e misure per bilanciare voti delle prove e valutazione del triennio. Torniamo ancora lì e me la spacci per una riforma?).
No, non lo faccio neanche il giochino di mettere insieme chiacchiere, collegi docenti, riforme e questa noiosa e stupenda meraviglia che sono gli esami. Che, tanto per cominciare, non sono uguali in tutte le scuole. Capita di fare il presidente da qualche parte anche vicino a dove si insegna, e davvero gli esami sono diversi nelle diverse scuole: il serio e impegnativo colloquio pluridisciplinare che sta sulla carta del ministero, e per fortuna anche nella mia scuola, è ormai ridotto spesso a un inutile rito. Chiavetta, Lim, mappa concettuale sull’argomento affrontato (uno? Uno solo? Capita anche così!) mappa letta, e pure male, dal candidato che poi procede ad estrarre come si deve la sua chiavetta dall’Usb molto meglio del prof, prendendosi i complimenti del presidente: vuoi mettere, le competenze che hanno ‘sti giovani qui?).
Ma se sono così diversi tra loro, si potrà dire qualcosa di vero su questi esami? Viene quasi l’dea che è impossibile generalizzare, tirare conclusioni, sbilanciarsi con dei giudizi. Ma è un’idea che mi passa via velocemente dalla testa quando penso a Davide, a Francesca, a Gregorio, a tutte quelle facce che ho avuto davanti per tre anni e che adesso ho salutato per sempre. Quello che c’è di vero in questi esami sono loro e sono io: una noiosa e stupenda meraviglia che è quella di questi anni insieme, niente di più e niente di diverso. La noia di ogni giorno vinta dallo strapotere della vita che ci attraversava, che rendeva interessante leggere gli autori e i libri che leggevamo perché in realtà erano loro che leggevano noi e la nostra vita; la stupenda meraviglia di accorgersi che non potevamo lasciare che nessun silenzio potesse avvolgere le cose, che non potevamo non dare un nome alla tristezza, alla fatica, alla sguaiata felicità di un bel voto, alla disperazione di un’amicizia che se ne andava o alla benedizione di un volto e di due occhi che entravano a far parte del nostro mondo.
Agli esami si arriva così, ciascuno con quello che è stato in grado di fare o di non fare, ciascuno con le sue paure e le sue ansie, ciascuno con i suoi trionfi e le sue medaglie. Ma per come ci si arriva, almeno qui da me, con la possibilità che, anche quella cosa lì, come il giorno noioso di novembre, possa riservare una sorpresa. E ce ne sono agli esami, quando sono veri: alcuni si stupiscono dei risultati negli scritti e all’Invalsi, che quest’anno, per inciso, sembrava piuttosto semplice, semplice; in molti non ci credono di avere preso quei voti lì e che adesso, visto il colloquio si potrebbe persino uscire con un voto migliore di quello con cui sono stati ammessi; così come molti, invece, si rendono conto di avere sbagliato qualcosa, di non avere proprio centrato le cose e che bisognerebbe ricominciare.
Gli esami non sono mica diversi da ogni noiosa e stupenda giornata che abbiamo vissuto fin qui. Con Giulia che dice al professore che gli mancherà tanto, ma così tanto che nemmeno lo può immaginare quanto. Lo dice così, nel suo italiano giuliesco e andandosene via quasi piangendo. Con Giorgia che scrive nel tema d’esame che in questa scuola ha incontrato dei maestri, gente che le ha voluto bene, che non solo ti fa imparare, ma soprattutto impara da te, perché alla fine sono loro, i maestri, che imparano più cose degli allievi. E riescono, nonostante tutti i miei difetti, a trovare dei pregi in me e a farmeli apprezzare. O ancora con Yuri che aveva iniziato il suo primo tema in prima media presentandosi così: io sono rabbia e tristezza. Ma nel suo tema d’esame, tirando un bilancio di questa battaglia che è stata la scuola e la vita, dice: ci sono ancora rabbia e tristezza, naturalmente. Ma c’è stato entusiasmo, l’amore, la riconoscenza, il sentimento e la voglia di ricominciare sempre. No, non sono più solo rabbia e tristezza. Sono tutta un’altra musica, con le mie note stonate e un ritornello che è ancora tutto da scrivere. Lo dovrò scrivere io, da solo. Grazie per avermi fatto vedere che forse si può. Ecco, gli esami sono questa noiosa e stupenda meraviglia che è un po’ la vita.
Chi sono i giovani che se ne vanno? In cosa credono? Cosa sperano? Di cosa hanno paura? Forse non ho risposto a queste domande, e non so come la prenderà il giornale che mi aveva chiesto invece, in un articolo breve, di fare una fotografia a questi bambini cresciuti in fretta che abitano le scuole medie. Ma non è questa la foto? Gente che, leggendo Montale e Leopardi, impegnandosi a risolvere espressioni e problemi, studiando la storia e la geografia del mondo, sa dire grazie, dà un nome alle cose, finalmente dice io. Io, così, so che se c’è un motivo per insegnare. Questo motivo sono loro e sono io. Io, allora, so che vale la pena di ricominciare ogni volta, ricominciando da qui: la scuola oggi più che mai ha il compito di rendere ragionevole la domanda sul significato delle cose, ha il compito di mostrare che ha senso porsi la domanda sul senso della realtà e di quello che ci facciamo noi lì dentro. Altrimenti la realtà scompare e tutto diventa liquido e informe. Che lo dica anche Vasco nell’intervista prima del suo concerto a Modena è così sorprendente? Bisognerà che lo si spieghi anche a quelli che fanno i corsi di aggiornamento sulle competenze. Ma questa è un’altra battaglia.