Oggi ricorre il 70° anniversario della Liberazione e di sicuro saremo investiti da un profluvio di immagini, discorsi e polemiche. Sull’argomento esiste da un decennio un piccolo libro, di poco più di un centinaio di pagine, dal titolo La Resistenza spiegata a mia figlia che già al suo esordio avrebbe dovuto trovare il favore di quanti amano i fatti e non i teoremi. Come diceva Einstein, ironizzando: “se i fatti e la teoria non concordano, allora cambia i fatti”, ecco che un docente di scuola superiore prova — e con efficacia — a rileggere i fatti e a gettare alle ortiche la lettura di parte durata troppo. A riprova dell’onestà dell’autore sta il fatto che Einaudi — che aveva commissionato il lavoro per il 60° della Liberazione (2005) — non gliel’ha più voluto pubblicare. All’opposto, vari intellettuali rigorosi nei loro giudizi e di orientamento diverso hanno riconosciuto la serietà dell’autore, Alberto Cavaglion.
“La Resistenza non è stata ‘una rivoluzione…’, “a far cadere il fascismo è una manovra dei suoi stessi gerarchi, senza la quale in Italia la Resistenza non sarebbe nata”: basterebbero queste semplici affermazioni di Cavaglion per convincersi che è forse la volta buona, questa del 70° anniversario del 25 aprile, per allargare la ragione dei nostri ragazzi nello studio di anni cruciali della storia più recente del nostro paese. In tutti questi anni comuni, istituzioni, scuole hanno celebrato la Festa della Liberazione, riducendola da gioioso avvento della democrazia e della libertà, di una ritrovata unità di popolo, a fenomeno della Resistenza antifascista. “In teoria, ma anche in pratica, avrebbe potuto non esservi alcuna forma di Resistenza, l’Italia avrebbe comunque riconquistato la libertà…” si legge nell’interessante studio di Cavaglion.
Lungi dal sottostimare il movimento storico politico resistenziale degli italiani che hanno concorso a dare il loro contributo — talvolta con la vita — per un destino di libertà dell’Italia, tuttavia il 25 aprile, quale è stato in verità cioè mobilitazione di popolo irriducibile alla resistenza dei politici o dei partigiani, è ancora da scoprire. Al movimento della liberazione della durata temporale di oltre due anni (’43 -’45) hanno partecipato i militari innanzitutto, i carabinieri (uno su tutti, Salvo D’Acquisto), il movimento operaio e cattolico, semplici uomini e donne di ogni età e condizione sociale che, senza fare la “scelta armata” su per le montagne, si sono opposti al regime stando nelle città o nelle campagne, nelle fabbriche o nelle scuole: sì, anche nelle scuole, come dimostra la storia di Concetto Marchesi, che lo studioso torinese non dimentica di raccontare.
Fin dai primi mesi del 1943 e senza la guida di politici e men che meno dei partigiani, che si organizzeranno mesi dopo, gli italiani si sono opposti con scioperi, volantini e reti di informazioni sia a Mussolini prima del 25 luglio, sia ai tedeschi e ai repubblichini dopo l’8 settembre, giorno dell’armistizio. Pertanto la paternità della lotta per la liberazione spetta a tutto il popolo e non solo ai gruppi armati e ideologicamente schierati. E questo va detto non per vis polemica né per pruriti revisionistici, ma perché è un dato elementare che sorprendentemente è spesso dato per scontato: il tutto (il popolo) è di più che la somma delle parti (i partigiani).
Del resto si continuano ad investire risorse ed energie e soldi in manifestazioni e iniziative che di poco scalfiscono la lettura ideologica della resistenza che — almeno nella scuola — resiste con censure e faziosità. Nell’ambito delle iniziative di una Commissione Scuole-Comune di Sesto San Giovanni (Milano) ho proposto di intervistare — data la disponibilità di Radio Popolare — per il 70° della Liberazione l’autore della Resistenza spiegata a mia figlia ma… sono ancora in attesa di una risposta!
“Ogni volta che si parla di Resistenza volano gli insulti; a chi si scaglia contro il 25 aprile e si propone di abolirlo, si risponde con una generica mozione di affetti: La Resistenza non si tocca! A forza di non toccarla, nessuno sa più che cosa sia. I morti sono tutti uguali! Esclamano gli uni. Diseguali sono le vite a seconda di come sono state vissute! sermoneggiano i Soloni del politicamente corretto. Torna in mente il grande Totò:Toglimi una curiosità, tuo zio è sempre morto?“. Ecco un altro stralcio del libro di Cavaglion che certo, non con una battuta di spirito ma studiando le date, portando fatti e documenti, propone una lettura di chiare fresche e dolci verità che, ad esempio, ha fatto sì che qualche (sic) docente nelle scuole italiane l’abbia adottato per l’esame di Stato.
Ed è pure accaduto che ad uno di questi esami di Stato, degli studenti, che avevano letto La Resistenza durante l’anno, si sono trovati nella condizione di dover spiegare agli insegnanti (sic!) della Commissione, “cresciuti” in una lettura politicizzata della resistenza, che il fascismo non è stato un regime sanguinario come e più del nazismo, che esso non fu dittatura o movimento reazionario ma totalitarismo e movimento rivoluzionario a sfondo utopico… Benché in tutti questi anni siano state stanziati quattrini su quattrini — e benché si sia in regime spending review — la conoscenza della storia della Liberazione tra i giovani ristagna nella morta gora del politically correct. Inoltre ai docenti che non si sono aggiornati su una lettura autentica della resistenza, corrispondono — per contrappasso dantesco — quegli studenti per i quali (è successo in una scuola brianzola!) oppositori al fascismo come Sturzo, Gramsci, Matteotti, Rosselli e partigiani come Parri, Togliatti, De Gasperi, De Gregori (Porzus), il fratello di Pasolini sarebbero la stessa cosa!
E se una ragione c’è di questa approssimazione nello studio della storia, essa non risiede solo nei libri di testo che brillano per piaggeria ideologica verso gli editori, ma nei mass media e nella sottocultura della classe media degli insegnanti che continuano con i luoghi comuni sul 25 aprile.
Nella scuola italiana si moltiplicano le occasioni per la memoria (27 gennaio: Shoah, 10 febbraio: foibe, 6 marzo: i Giusti, 24 aprile: genocidio degli armeni…) ma la freschezza della verità storica non arriva agli studenti, per la semplice ragione che la memoria ridotta al dovere (di ricordare) così come la verità ridotta a dottrina sarà sempre lontana dal “nostro” presente ed estranea alla vita di tutti i giorni. Non bastano le palate di moralismo né il ricorso a film, arte, musica e teatro per tenere in vita la lettura imbalsamata degli eventi; i giovani sono “altrove”, ovvero dove c’è vita verità e storia!
Come si può perpetuare una memoria ridotta al calendario senza alcun nesso con l’urgenza di intercettare e rimuovere le ragioni profonde che portano tutti, giovani e adulti, nel nostro presente ad esser tentati di cinismo e antipolitica? Si vuole volontaristicamente piegare il presente, il nostro, che è attraversato da una profonda esigenza di cambiamento, con la celebrazione di un passato? Si assiste per lo più a iniziative sulla memoria “irrigidite da impalcature retoriche tali da rendere impossibile il solo parlarne” (A. Cavaglion), quando invece si tratta di proporre nel presente la riscoperta della Politica e la sua bellezza, ovvero la passione per il bene della polis, comune e di tutti.
Le recenti pagine sul Corriere della Sera (11 aprile) per l’imminente festa della Liberazione, a firma di Cazzullo e Carioti, noti giornalisti, non dicono nulla di nuovo nello specifico; sì, di nuovo vi è il lancio di un piano editoriale di libri sulla resistenza — peraltro noti — come quelli di Pavese o Fenoglio; autori, questi, che — guarda caso — raramente vengono adottati dagli insegnanti, almeno nella nostra scuola — e pertanto non provocano il benché minimo cambiamento culturale. Comunque nei summenzionati articoli non si fa cenno al contributo che l’esercito italiano ha dato nella lotta di liberazione: che fine ha fatto la storia della divisione Acqui sterminata a Cefalonia? Dov’è la storia di Porzus, dell’Osoppo sterminata dai Gap? E la storia delle centinaia se non migliaia di militari finiti in Germania a lavorare o a costruire V1 e V2 nei sotterranei di Amburgo?
Sempre sul Corriere, nell’intervista di Carioti a Smuraglia, presidente dell’Anpi, ci tocca leggere che gli eccidi dei partigiani sarebbero state ingigantiti per denigrare il movimento, che in guerra “ci sta” (!) che si facciano delle crudeltà o processi sommari… e quindi le stesse inchieste di Giampaolo Pansa alla fine sarebbero strumentali o comunque rientrerebbero nella natura delle cose? No comment. Gap o Sap non sono semplici onomatopee, erano bande partigiane: non è lecito chiedersi se hanno o no — al di là delle intenzioni — contribuito agli eccidi dei tedeschi?
Per esempio l’attentato di via Rasella che ha poi portato all’eccidio delle Fosse Ardeatine: valeva la pena sterminare un battaglione di tedeschi con quelle conseguenze di oltre 300 civili assassinati con un colpo alla nuca? La scusante “ma sì, si era in guerra” (Smuraglia) è una spiegazione “inspiegabile”, se pensiamo che poi i tedeschi con i loro boia tipo Erich Priebke o Walter Reader davano seguito alle rappresaglie giustificandosi allo stesso modo dei partigiani, dicendo “si era in guerra”; almeno dopo tanti anni e in occasione del 70° sarebbe ora di fare qualche riflessione critica. Magari farsi qualche domanda, se non proprio farsi venire qualche dubbio.
Eppure Cesare Pavese nel suo formidabile La casa in collina l’aveva ben capito: la Liberazione o è la festa di una ritrovata unità di tutti gli italiani o è la solita alchimia di potere, il solito gioco al ribasso, lo stesso di una politica (leggi: casta) – quella di oggi — lontana dal servire il popolo, che tiene i giovani lontani ed estranei, tanto più se il pulpito da cui è insegnata è la scuola. Pavese al vedere i corpi dei repubblichini sull’asfalto in una pozza di sangue, dovendo scavalcarli per passare oltre scriveva: “Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui. Non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l’impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli… ci si sente umiliati perché si capisce — si tocca con gli occhi — che al posto del morto potremmo essere noi… Per questo ogni guerra è una guerra civile”.