Anche per noi il 21 agosto, data dell’invasione russa della Cecoslovacchia, fu uno choc. Eravamo in vacanza in tante località diverse. Ci sentimmo e decidemmo di tornare a Milano, forse anche per superare insieme il senso di impotenza che ci aveva preso. Fu subito chiaro che non potevamo tenerci dentro quello che avevamo visto e conosciuto e che rischiava di sfuggire dalla memoria sotto l’incombere della nuova tragedia di un intero popolo. Cominciammo a parlarne in privato e in pubblico, in tutte le occasioni che riuscimmo a sfruttare, aiutati dal fatto che l’attualità degli eventi suscitava curiosità e domande. Un amico editore, Sante Bagnoli, allora agli inizi della sua avventura culturale e imprenditoriale con le edizioni Jaca Book, ci diede ampio spazio per la pubblicazione delle nostre testimonianze.
Fu però presto chiaro che il mondo intellettuale italiano aveva fretta di archiviare questa parentesi imbarazzante della storia. La sinistra ufficiale espresse il proprio dissenso per l’invasione, senza però arrivare a tagliare il cordone ombelicale con Mosca. La “nuova sinistra” e molti intellettuali d’avanguardia erano rimasti abbastanza indifferenti verso un fenomeno che metteva in crisi le loro certezze, ponendo ancora una volta in luce il volto liberticida del “socialismo reale”. Meglio voltar la faccia dall’altra parte, piuttosto che solidarizzare con chi aveva rimescolato le carte del loro incrollabile impianto ideologico: le lotte buone erano solo quelle contro l’America e le “multinazionali”. Quelle per la libertà di pensiero, contro il capitalismo di Stato e l’imperialismo sovietico, puzzavano di revanscismo borghese e di corruzione consumista. Per tutti gli altri, i Patti di Yalta costituivano un bastione invalicabile della realpolitik europea, con cui fare i conti. In Italia, in particolare, anche la maggior parte di intellettuali, giornalisti e politici di area cattolica o moderata, erano preoccupati di favorire e incoraggiare la timida evoluzione del Partito Comunista, che avrebbe poi preso il nome di “migliorismo”: il Pci rimaneva un antagonista elettorale, ma bisognava costruire ponti e non esasperare fratture, creare un clima dialogante che permettesse il pacifico superamento di “storici steccati” e, chissà, un futuro compromesso di collaborazione per il bene del paese. In parole povere, grande spazio — giustamente — al Vietnam, alla Bolivia e al Sudafrica e, ogni tanto, alla Spagna e al Portogallo, ma dell’eroica lotta pacifica per la libertà di uomini disarmati contro il secondo esercito più potente del pianeta non glie ne fregava un granché a nessuno, anche se tutto quanto avveniva a quattro ore di macchina dalla nostra frontiera. Dopo poche settimane, la vicenda sarebbe passata nelle pagine interne dei giornali.
A noi, però, più che le prospettive politiche, interessava la valenza umana delle esperienze fatte nell’incontro con persone ancora permeate di idealità, radicate in quanto di più nobile la tradizione europea avesse costruito, disinteressate al proprio tornaconto immediato, fatte della pasta che anni dopo il mondo avrebbe conosciuto incarnata in nomi come Václav Havel, Lech Walesa o Karol Wojtyla. Ci sembrava una ricchezza troppo grande per non condividerla, dovevamo raccontarla come potevamo, approfittando di quella breve finestra di opportunità data dall’attenzione mediatica suscitata dall’invasione militare.
Oltre a spargere la voce tra amici e renderci disponibili per andarne a parlare ovunque ci invitassero, in privato come in pubblico, ricordo il tentativo fatto in settembre, andando a Roma e facendoci ricevere dalle redazioni politiche dei principali quotidiani delle diverse tendenze. Clima ovunque cordiale e incuriosito, ma il messaggio nella sostanza era “Bene ragazzi, adesso lasciateci lavorare”. Ricordo anche la visita all’Osservatore Romano, ricevuti da un prelato interessato soprattutto a sondare la nostra affidabilità interrogandoci sulla nostra opinione sulla recentissima enciclica Humanae Vitae. L’atmosfera era surreale, finché non riuscii a trattenere la mia battuta: “Non si preoccupi, noi siamo di quelli bravi”. Seguirono cinque secondi di apnea generale, ma almeno si cambiò discorso. Al momento vidi dei fulmini incrociarsi negli sguardi dei miei amici, salvo poi esplodere in una scrosciante risata una volta abbandonato l’austero ufficio. In fondo, anche questo era ’68 e, poi, era il giorno del mio ventesimo compleanno.
All’inizio del nuovo anno accademico, in università il Movimento Studentesco mi appariva ormai come una ripetitività di riti e liturgie svuotati di ogni prospettiva. Dietro ogni slogan e ogni parola d’ordine sentivo riecheggiare l’ineluttabilità di un esito che la storia aveva già messo alla prova nell’esperienza del paese dei miei nuovi amici e che, come avevo nel frattempo imparato, era del tutto simile a quanto vissuto in Polonia, Ungheria e nella vicinissima Jugoslavia. Il percorso verso la verità e la giustizia puntava decisamente in un’altra direzione.
Così, mentre mi preparavo ad attraversare anni che per la nostra società sarebbero stati di smarrimento per alcuni, di esaltazione per altri, di delusione per quasi tutti, mi ritrovavo a riannodare i fili della mia esperienza, come decontaminato da ogni illusione ideologica e da ogni schematismo di pensiero preconfezionato, almeno questa era la sensazione. Rimaneva però, per me e per i miei compagni d’avventura, l’ansia per le persone che avevamo incontrato e delle quali non avevamo più notizie. Eravamo anche paralizzati dal timore che scrivere una lettera o fare una telefonata avrebbe potuto provocare conseguenze spiacevoli per loro. Finché, nell’autunno del ’69 non arriva una cartolina con solo due parole: “Vi aspettiamo”. Non ce lo siamo fatto ripetere. E le tracce non si sono più perse.
(3 – fine)