Le parole che il ministro Profumo ha pronunciato intervenendo in web conference alla convention di Diesse, relativamente alla scuola intesa come “centro civico” fanno parte del suo programma politico, ribadito in varie circostanze. Ecco per esempio alcune espressioni ricavabili dal discorso inaugurale dell’anno scolastico 2012-2013: “La scuola, come luogo fisico, diventerà un ambiente di interazione allargata e di confronto, che mano a mano supererà gli spazi tradizionali dell’aula e dei corridoi. La immaginiamo come un vero e proprio Hub della conoscenza. Aperto agli studenti e alla cittadinanza, centro di coesione territoriale e di servizi alla comunità, un vero e proprio centro civico”.
La risposta alla inevitabile obiezione: può esserlo?, è tutto sommato semplice. Un centro civico non è una scuola, ma un’altra cosa. Sarà un centro di aggregazione giovanile oppure la sede delle attività dei centri culturali di un territorio, ma non una scuola. La ragione è che la scuola rinasce ogni giorno (è stato ribadito e sperimentato alla convention) nello spazio dell’interesse e dell’entusiasmo per la realtà che l’insegnante accende nella coscienza del più giovane. La scuola è un passo nella crescita dell’umano, cioè nella coscienza critica di sé e delle cose che ci circondano. Di conseguenza gli spazi e i tempi, pure assolutamente necessari, sono determinati dall’alleanza formativa ed educativa che si realizza tra persone quotidianamente aperte alla sfida della conoscenza. È l’esercizio dell’apertura della ragione che coinvolge giovani e adulti a costituire l’ambito scolastico (spesso degradato, non c’è dubbio), piuttosto che l’apertura di uno spazio fisico, per quanto dotato di strumentazioni tecnologiche.
Altro paio di maniche la questione dell’orario di servizio dei docenti prolungato fino a 24 ore settimanali che ha messo in agitazione, negli ultimi giorni, singoli insegnanti, sindacati e associazioni. Sull’argomento il ministro non si è soffermato durante il collegamento, ha preferito, come si suol dire, glissare. Successivamente si è premurato di rassicurare gli addetti ai lavori che “questo tema ha bisogno della contrattazione sindacale. Abbiamo da fare il contratto del 2014, che sarà una grande opportunità anche dal punto di vista salariale. Quella sarà l’occasione per stipulare un patto per la scuola, nel quale dovrà esserci il riconoscimento del grande ruolo dei docenti. Questo ruolo va rivalutato in termini assoluti, anche per quanto riguarda gli stipendi. Rilancio della reputazione del ruolo dell’insegnante e insieme gratificazioni finanziarie” (Intervista a Il Messaggero del 14 ottobre 2012). Dal che si ricava, ce lo auguriamo vivamente, che la corveé dell’insegnante verrà espunta dal patto di stabilità e trasferita sul piano del “patto per la scuola” di cui si parlerà nei prossimi mesi.
Il ministro anticipa che dovrebbe trattarsi in realtà di una progressione della carriera cui è abbinata una progressione economica, del tipo: scegli tu la forma giuridico-economica che più ti aggrada per stare nella scuola (“Il nostro obiettivo è agganciarci agli standard europei, anche nelle retribuzioni. Ciò che a noi manca, ed è il punto più importante, è la carriera”). La flessibilità di cui si parla tuttavia, aggiungiamo noi, comporta la revisione delle forme del reclutamento e della condizione giuridica del docente.
E qui ci fermiamo, pensando alle pregiudiziali ostilità di matrice sindacale che la trasformazione del contratto della funzione docente in “docente a contratto” potrebbe comportare, come ha comportato tutte le volte che una simile prospettiva si è affacciata sul limitare della politica scolastica. Ci piace presumere però, nel nostro piccolo, che il retromarcia preoccupato del ministro, fino al suo attestarsi sui lidi più ragionevoli delle opportunità che le circostanze obbligano a considerare (per il bene del Paese, da non disgiungere dalla risorsa in capitale intellettuale rappresentato dagli educatori), sia anche dipeso dalle nostre “pungolature”.