Responsabile del Dipartimento Sistemi Educativi della Fondazione per la Sussidiarietà, conosciuto e apprezzato per i suoi interventi sul movimento del ’68, nonché sull’attuale sistema scolastico, riforma Gelmini e conseguenti manifestazioni dei giorni scorsi, Giovanni Cominelli approfondisce in questa intervista i criteri e giudizi emersi nel Corso di Storia del ’900 “Il secolo di ieri”, di cui è stato relatore. Il corso, rivolto ad insegnanti e studenti, era costituito da cinque incontri promossi fra ottobre e novembre da Diesse Lombardia presso l’Istituto Professionale Cavalieri di Milano, con una presenza media di 230 persone.
I cinque periodi storici affrontati nel Corso: gli inizi del ’900, la Prima Repubblica, l’Italia industriale, il decennio ’68-’78 e la crisi della Prima Repubblica hanno rivelato una concezione della storia ampia e sfaccettata: non solo interagiscono con la presentazione dei fatti le immagini proiettate, ma anche la descrizione dei fenomeni culturali, sociali, religiosi, economici, artistici ecc. dello stesso periodo. Quali sono stati i criteri metodologici e didattici ai quali si è attenuto per queste ricostruzioni storiche?
Dal punto di vista del metodo ho cercato di fornire uno sguardo globale sul periodo storico di volta in volta messo sotto la lente. Globale significa non solo riconoscere tutte le manifestazioni di una fase storica, ma anche individuare le connessioni tra sviluppo tecnico-scientifico, effetti sull’economia, sulla mentalità, sulla cultura e sulle visioni intellettuali, evitando un materialismo storico volgare unidirezionale, che muove dall’economia per arrivare deterministicamente alle visioni del mondo. Anche le visioni del mondo “determinano” il quadro concettuale entro cui si aprono nuove scoperte tecnico-scientifiche. Dunque: uno sguardo globale e circolare. Alla globalità dello sguardo appartiene anche la proposta di una chiave interpretativa generale della storia dell’uomo e del suo destino. Esplicitare la “metafisica occulta” è necessario per fondare il discorso e per renderne trasparenti le conseguenze.
Sul piano didattico, coerentemente con il metodo, sono sempre partito dalla catena cronologica degli eventi per interpolare interpretazioni e giudizi. Dare ai ragazzi il senso della “freccia del tempo” è il presupposto perché imparino a guardare il mondo non solo come un presente da vivere e consumare, ma anche come tradizione e come futuro. Le date sono lo scheletro della storia. L’uso delle slides ha aiutato a combinare visivamente date, volti, parole.
Giudizi precisi, conoscenze fondate e confronto leale fra posizioni diverse sono stati fattori caratterizzanti il Corso e la comprensione delle dinamiche storiche del secolo passato. Ritiene che questi stessi elementi siano necessari non solo per rivitalizzare l’insegnamento nella scuola, ma anche per fondare un dialogo tra studenti, genitori, insegnanti e politici?
Sì. Il dialogo è reale se non si riduce ad una giustapposizione di giudizi, enunciati, ma mai veramente discussi. Per entrare in contatto con il giudizio dell’altro occorre esplicitare le chiavi interpretative. Questo metodo è la base di ogni rapporto, dentro e fuori la scuola. Questa è l’epistemologia del discorso dialogico. Sennò si fa ideologia e propaganda del dialogo, ma è solo un gioco di potere, in cui ciascuno cerca di annientare l’altro.
Alcune Sue affermazioni hanno suscitato qualche perplessità, in particolare quando ha parlato delle attuali manifestazioni studentesche e ha espresso un giudizio non negativo sui manifestanti. Essi infatti mostrerebbero di cercare qualcosa e di non subire passivamente l’immobilismo della scuola. Conferma ancora questo giudizio? Lo ritiene applicabile anche ai primi disordini del ’68?
E’ una constatazione che solo un’infima – ma verrebbe da dire “infimissima” – minoranza conosce veramente il Decreto Gelmini o la legge n.113 di Tremonti. Significa che protestano contro ciò che non conoscono? Certamente sì. Ma il fatto è che non scendono in piazza per questo. Decreti e leggi sono solo degli attaccapanni strumentali, cui appendere l’espressione di bisogni, paure, speranze di una giovane generazione così povera di futuro. Hanno davanti un futuro lungo, un mondo immenso, ma vivono in un Paese immobile, inchiodato al presente, restio ad ogni cambiamento. Un Paese in cui “nulla è possibile”. Dunque si muovono, attingendo dall’ambiente circostante il lessico per dire le proprie aspirazioni. Vale il giudizio anche per il movimento del ’68? Si! Anche allora il movimento parti in sordina, con rivendicazioni puramente sindacali. A poco a poco si politicizzò e si idelogizzò. Incominciò a porre la questione del potere e poi dell’assalto allo stato borghese. Non mi pare, tuttavia, che oggi esistano le condizioni per il salto dalla dimensione rivendicativa sindacale a quella politica. Manca la fiducia nel futuro, il Paese, appunto, è ripiegato e immobile. Tutto ciò può generare una reazione rabbiosa e disperata di piccole frange che hanno appreso l’ideologia in ambiti già fortemente strutturati.
Di fronte alla sfida del multiculturalismo del nostro tempo cui Lei ha ripetutamente accennato e che vedrà i giovani di oggi impegnati a verificare le proprie convinzioni e ad assumersi le proprie responsabilità, quali giudizi esprime e quali esperienze della storia passata propone loro come modelli di riferimento?
Modelli di riferimento non sono possibili. Poiché, tuttavia, le generazioni attualmente viventi si trovano nel bel mezzo di una transizione dalla seconda alla terza rivoluzione industriale, fino ad un nuovo assestamento di civiltà non prevedibile, ha senso tentare di trarre delle indicazioni dalle transizioni precedenti, quali l’Europa ha vissuto negli ultimi duemila anni.
La prima è quella che va dal 410, anno del sacco di Roma ad opera dei Visigoti di Alarico, al Natale dell’800, quando nasce con Carlo Magno il Sacro romano impero. Si parte da Sant’Agostino (354-430), attraverso San Benedetto (480-547) fino ad Alcuino (735-804). La seconda è quella segnata dalla scoperta dell’America nel 1492: è la prima globalizzazione. Dura fino al 1700, quando incomincia a svilupparsi la prima rivoluzione industriale, che porterà nel 1800 alla seconda rivoluzione industriale e alla seconda globalizzazione. La terza è incominciata negli anni ’70 del 1900. Nel 1971 nasce il microprocessore nella Silicon Valley, donde la terza rivoluzione industriale e la terza globalizzazione.
Quali indicazioni? Una molto semplice, quella di San Benedetto: Ora et labora. E poiché nell’epoca dell’economia della conoscenza, i confini tra l’otium e il negotium sono saltati, si può anche tradurre: prega e studia. Il che è come dire che, esauriti i miti della potenza degli stati nazionali e dei progetti scientifici o politici di salvezza del mondo, occorre ripartire, in questa alba del secolo XXI, che le giovani generazioni attraverseranno per intero, dalle radici cristiane della civiltà europeo-occidentale.
Intervista a cura di Donata Conci