È il 1934. Un uomo, ebreo, mosso da oscuri presagi abbandona per sempre la sua casa di Salisburgo per recarsi a Londra, con la moglie. Non si tratta di un uomo qualunque. È uno scrittore affermato: i suoi libri, tradotti in una trentina di lingue, sono stati diffusi in sessanta milioni di copie. Quei volumi, tra poco, saranno bruciati nei roghi nazisti nelle piazze di tante città europee e non troveranno più posto su nessuno scaffale della Vecchia Europa.
È amico di Rilke, di Werfel, di Joseph Roth, di Mann e di tanti altri. Sarà lui a pronunciare l’orazione funebre per Sigmund Freud. Conosce Einstein, Toscanini, Albert Schweitzer. A Londra incontra Lotte, più giovane di lui di oltre venticinque anni. Divorzierà dalla moglie per sposare lei, la giovane nipote del rabbino di Francoforte, nativa di Katovice. Giovane e malata, Lotte lo seguirà ovunque, fino al termine delle sue peregrinazioni. A Londrà saprà della morte della madre Ida, vecchia, malata e sola, avvenuta nell’agosto del 1938, pochi mesi dopo l’occupazione nazista di Vienna, il 13 marzo di quell’anno. E da Londra dovranno andarsene, l’uomo e la sua giovane moglie malata, dopo aver ricevuto una lettera dal Foreign Office che indicava lo scrittore, austriaco, come Alien Enemy. La dichiarazione di guerra contro il Reich faceva di lui un potenziale nemico.
Allora via, verso il Nuovo Mondo, verso New York. Città bellissima, ma dall’aria irrespirabile per i delicati polmoni di Lotte, che sarà ripresa per i capelli quando aveva già quasi varcato le soglie della morte. Allora un altro esodo, un altro viaggio, verso Petròpolis, poche decine di chilometri a nord di Rio de Janeiro. Un altro mondo, un altro clima, un’altra vita. Qui porterà al suo editore il voluminoso manoscritto delle sue memorie, le memorie di un mondo finito per sempre, un mondo senza presente né futuro che appartiene all’ieri della storia.
Qui tenterà di scrivere altro, un racconto sugli scacchi, la biografia di Balzac. Qui leggerà, cercandovi consolazione, inutilmente, Montaigne, altro fuggiasco come lui, nell’Europa devastata dalla peste. Come oggi. Qui incontrerà l’esule Bernanos, anch’egli rifugiatosi in Brasile. L’ebreo ateo e disilluso e il battagliero cattolico che inutilmente cercherà di persuaderlo a lottare e scrivere. Qui tornano a visitarlo, nelle sempre più frequenti veglie notturne o nei sonni indotti dai farmaci i fantasmi del passato.
Joseph Roth, che chiede notizie di sua moglie e riceve in risposta pietose bugie. E tanti altri, spettri vivi e morti di un mondo divorato dal male. Qui la notizia dell’ingresso in guerra degli Stati Uniti, un’euforia precaria, rudemente soffocata dalle voci che giungono dall’Europa e raccontano la tragedia degli ebrei, spazzati via dal mondo. Poi, dopo le allucinazioni del carnevale di Rio e la resa di Singapore, caduta nella mani dei giapponesi, la decisione irrevocabile di lasciare questo mondo. Lui e la giovane moglie. Scivolare insieme verso la tenebra con in bocca il tossico umore del veleno. Il 22 febbraio 1942. Domenica.
Sono “Gli ultimi giorni di Stefan Zweig”. Ricostruiti, immaginati e raccontati da Laurent Seksik, narratore francese, e medico.