Il 26 novembre scorso è morto improvvisamente a Roma lo storico Victor Zaslavsky: una morte del tutto inattesa, perché Zaslavsky era nato poco più di settant’anni fa (a Leningrado nel 1937), era ancora in piena attività e in questa attività continuava a dimostrare quelle che erano state le sue caratteristiche di sempre: oltre alla grandezza dello storico, un’umanità affettuosa e di squisita discrezione e una libertà di spirito e di giudizio rara.
Questa libertà lo aveva costretto ad abbandonare l’Unione Sovietica, dove si era formato come storico; in seguito aveva insegnato nelle più prestigiose università americane, per approdare poi in Italia (si era sposato con una storica italiana, Elena Aga Rossi) dove insegnava alla Luiss di Roma.
Tra i meriti per i quali verrà ricordata la sua figura di storico, innanzitutto c’è l’intuizione del ruolo che l’ideologia ha avuto nel determinare le caratteristiche dell’Unione Sovietica: non un semplice Stato e neppure una forma di gestione del potere, ma un sistema nel quale monopartitismo ed economia pianificata e militarizzata avevano portato prima all’assorbimento della società civile nello Stato, e quindi alla nascita dello stalinismo e alla conseguente eliminazione di tutto quello che nella vita reale potesse mettere in discussione il dominio omologatore dell’ideologia: «il partito si è fuso per me con la mia vita privata, così strettamente e completamente da darmi sempre la certezza di essere una particella di quella immensa forza che porta il mondo in avanti»; così aveva detto una militante comunista in una lettera citata da Zaslavsky in uno dei suoi libri.
Un altro dei grandi pregi di Zaslavsky, ciò che rendeva così acuta la sua ricostruzione degli avvenimenti, era il radicamento nei documenti; proprio questo attaccamento alla realtà, la cui negazione era l’elemento fondante del sistema comunista, gli aveva permesso di sfatare alcuni dei miti apparentemente più indiscutibili della storiografia corrente, primo fra tutti quello dell’indipendenza del PCI da Mosca. Era nato così il suo lavoro su Togliatti e Stalin, nel quale aveva mostrato come la tanto celebrata svolta di Salerno (cioè l’ingresso dei comunisti italiani nel governo di Badoglio), invece di essere stata una manifestazione di indipendenza di Togliatti nei confronti dei sovietici, era stata un’imposizione di Stalin.
Sempre dallo stesso attaccamento ai documenti erano nati i suoi lavori sulla tragedia dei circa 25.000 prigionieri polacchi che nella primavera del 1940 erano stati massacrati dai sovietici nei pressi di Katyn e di alcuni altri luoghi dell’URSS; anche in questo caso troppo a lungo una parte dell’occidente si era accontentata delle spiegazioni sovietiche che attribuivano la colpa dell’eccidio ai nazisti: ancora nell’edizione del 1990 la Storia dell’Unione Sovietica di Giuseppe Boffa metteva in dubbio la vera paternità della strage.
Quello della denuncia delle complicità e dei silenzi dell’occidente è stato un altro dei punti sui quali il lavoro di storico di Zaslavsky ha dato dei grandi contributi, anche dal punto di vista del significato e degli strascichi che certi silenzi hanno avuto sulla nostra vita contemporanea, basti a questo proposito ricordare quanto scriveva Zaslavsky parlando del muro di omertà e di connivenze che aveva permesso di tollerare i finanziamenti sovietici ai comunisti italiani, mettendoli sullo stesso piano di quelli ricevuti dai partiti democratici per favorire il mantenimento del regime democratico pluripartitico: «la tacita accettazione, se non l’approvazione della prassi dei finanziamenti sovietici, si traduceva in un indebolimento del senso dello Stato e dell’identità nazionale». La crisi attraversata dalla politica italiana dopo la fine dell’Unione Sovietica trova in questa osservazione, e nella denuncia di una sorta di teoria della doppia verità, una chiave di lettura che rende l’opera di Zaslavsky assai interessante anche oltre i limiti della sola storiografia.