Sull’eterna questione dell’Alta velocità ferroviaria in Val di Susa si approssima una scadenza di quelle che si vorrebbe non capitassero mai, il processo per istigazione a delinquere che inizia il 28 gennaio prossimo a Torino contro lo scrittore Erri De Luca, accusato appunto di aver istigato i no-Tav a commettere reati perché ha scritto e ripetuto più volte che secondo lui è giusto “sabotare la Tav”.
Sia chiaro: De Luca è un artista vero, un uomo in fondo piuttosto schivo che non sembrerebbe un Toni Negri in salsa napoletana, non ha la teatralità né la protervia dei “cattivi maestri” partoriti da questo strano Paese durante gli anni di piombo. Ma sulla Tav in Val di Susa ha sparato a zero…
“Un intellettuale deve essere coerente e mettere in pratica ciò che sostiene”, ha dichiarato De Luca in un’intervista a Repubblica: “Per questo anch’io ho partecipato a forme di sabotaggio in Val di Susa”. E poi si è difeso sul piano storico e politico: “Il termine sabotaggio fa parte di una lunghissima tradizione di lotte del movimento operaio e sindacale. Ho fatto una constatazione: in una valle che vive in stato d’assedio e militarizzata per difendere un’opera inutile e dannosa, e dove non ci sono altri modi per farsi ascoltare, si ricorre al sabotaggio”.
Fermiamoci un momento. Che idea della democrazia ha De Luca? “Farsi ascoltare” secondo lui equivale ad “averla vinta”? I valligiani no-Tav sono stati ampiamente ascoltati: ma non accontentati. E ci mancherebbe! Lo sanno che l’opera che boicottano è stata voluta da due parlamenti, quello francese e quello italiano, democraticamente eletti? Dove quindi ha vinto la maggioranza, che voleva l’opera? E sa De Luca che in democrazia la maggioranza vince e la minoranza accetta la sconfitta? Si direbbe di no.
Ora De Luca, alla vigilia del processo, scrive un piccolo libro: La parola contraria (Feltrinelli, 2015, 64 p.). “In aula non vado a discolparmi, ma a mettermi di traverso alla censura che vuole la parola contraria su un binario morto”. Sostiene lo scrittore che in ballo non c’è la condanna o l’assoluzione di un presunto “istigatore-sabotatore”. C’è molto di più: c’è la negazione della “parola contraria”, c’è il cloroformio per addormentare la voce del dissenso, c’è la mordacchia per ferire le lingue non ortodosse, c’è lo strumento per zittire chi — come hanno scritto Alvaro Mutis e Fabrizio De André — “viaggia in direzione ostinata e contraria”. E ci sarebbe “il misconoscere l’articolo 21 della Costituzione che ci permette la massima libertà di esprimere le nostre opinioni”.
Ma c’è anche l’articolo 414 del Codice penale che vieta l’istigazione a delinquere come atto di comunicazione, quindi come espressione di un pensiero che è libero, resta libero, ma non può essere comunicato perché istiga a un reato! E, tanto per restare alla Costituzione, essa contiene anche un articolo 54 che recita: “Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi”. E, giusto per la pignoleria, i codici sono leggi.
Ma c’è di più. È il merito del “no” alla Tav in Val di Susa, che i no-Tav sbandierano e lo scrittore fa proprio. Una valanga di argomenti — primo fa tutti che sventrando (sic) la montagna per la gallerie si libererebbe il micidiale amianto assassino che vi è racchiuso — di cui a tutta evidenza né De Luca, né tantomeno i no-Tav sanno nulla. Parlano per sentito dire. Fondamenti scientifici dimostrati? Pressoché inesistenti. Timori di pericolo? Infondati… È dal 2006 che i test anti-amianto ne hanno escluso la presenza, ed è da allora che i no-Tav reclamano nuovi test…
Però, c’è un però. Nella stessa intervista, De Luca polemicamente evoca le sbruffonate di Bossi quando minacciava che i suoi militanti erano pronti a prendere le armi contro Roma ladrona: “Un leader che ha questo ruolo e che istiga all’uso di armi, parla di fucili da imbracciare… Ecco quel leader, a mio avviso, ha una responsabilità innanzitutto nei confronti dei suoi seguaci che possono essere indotti da quelle parole a metterle in pratica”. E qui De Luca ha ragione. Effettivamente, la Repubblica ha spesso mostrato di usare due pesi e due misure. Contro i politici “in servizio effettivo” che usano espressioni offensive o — come nel caso di Bossi — istigatrici, comprensione e indifferenza. Contro gli intellettuali pronta reazione.
Ed è qui che viene spontanea l’associazione con le vignette volgari contro le religioni pubblicate da Charlie Hebdo: tutte le religioni. In Italia, l’articolo 403 del codice penale punisce il reato di vilipendio contro la religione dello Stato, ed è uno dei reati meno condannati della storia: ma cosa ci vorrebbe se in tutti i paesi civili anche i più aggressivi degli autori satirici, vignettisti e non, avessero la prudenza e anche la sensibilità culturale di non spingere la satira contro le religioni, tutte (quella di Stato, quando e dove c’è, ma anche le altre) fino a oltre il limite dell’offesa?
La verità — per riallacciarsi alla premessa — è che da queste polemiche non si esce mai convinti del tutto. È giusto difendere la libertà d’espressione, ma anche la sicurezza del Paese, com’è giusto individuare nelle parole di un intellettuale carismatico una forza ispiratrice tale da istigare davvero gli sprovveduti a commettere reati… ma è difficile accettare di dovergliere proibire.
E allora è qui, forse, che si misura la stoffa morale e il senso di responsabilità dei singoli, roba che i codici non configurano. De Luca, che è così bravo nella scelta delle parole, non può non conoscere la differenza tra sabotaggio e boicottaggio. Tra resistenza attiva e passiva. Gandhi ha dimostrato quali miracoli può compiere la resistenza passiva. De Luca saprà certamente tutto sulla “marcia del sale” che il Mahatma compì dal 12 marzo al 5 aprile del 1930 contro la tassa inglese sul sale… e ricorderà come i manifestanti affrontavano le percosse della polizia senza mai reagire. Quello è manifestare. Ma a guardare dentro il fenomeno no-Tav si riscontra quanto sia lontano dalla lezione del Mahatma. Quanto sia violento, approssimativo, circoscritto e ignorante. A opera, in fondo, di un pugno di persone che probabilmente sarebbero pronte — almeno nella stragrande maggioranza dei casi — a recedere dal loro “no” se solo ottenessero le straordinarie contropartite che pretendono.
Quando a Milano si aprivano i cantieri della Brebemi, una frazioncina del comune di Segrate, Tregarezzo, considerandosi particolarmente danneggiata dal tracciato della nuova autostrada inalberò una lotta a furia di striscioni dal sapore vagamente comico, tipo: “Tregarezzo muore, vogliamo vivere”. Com’è finita si sa: qualche aggiustamento, quale opera compensativa, e l’autostrada s’è fatta. Ora, non è che si voglia banalizzare la differenza di complessità del caso di Tregarezzo con quello della Tav in Val di Susa: ma la Tav come la Brebemi sono strutture utili per milioni di persone e per l’economia nazionale.
In definitiva, la vera iattura è che queste vicende finiscano nel tritacarne mediatico-giudiziario, perché si ottiene l’unica conseguenza di dare a esse nuovo risalto e nuova credibilità laddove nella realtà dei fatti non ne avrebbero pressoché alcuna. E tutto questo — ma proprio tutto, a cominciare dalle proteste — nulla ha a che vedere con la possibilità di intercettare e prevenire eventuali nocività collettive di un’opera pubblica: troppi casi lo dimostrano. Si può solo sperare che all’Arpa del Piemonte e dentro tutte le altre autorità pubbliche che hanno svolto i controlli sulla Tav ci siano persone di coscienza, competenti e incorruttibili. Se ci sono, con o senza “no-Tav”, possiamo star tranquilli. Se non ci sono, non serviranno certo le proteste sgangherate di quattro valligiani a fermare i danni, così come non bastò non bastò il movimento no global dei secondi anni Novanta a fermare la globalizzazione, con i suoi tanti mali.