È almeno da un paio di decenni che il dibattito politico, culturale, sindacale tematizza la questione decisiva della professionalità degli insegnanti.
Per quante riforme istituzionali, ordinamentali, organizzative, curricolari si riesca a introdurre, la condizione alla quale esse producano il cambiamento desiderato è quella di una professionalità moderna del personale docente e dirigente. Le riforme camminano sulle loro gambe. Sennò sono destinate inesorabilmente al fallimento. Ciò vale anche per i nuovi regolamenti. Nel corso dell’ultimo decennio sono passati sotto i nostri occhi Luigi Berlinguer, Tullio de Mauro, Letizia Moratti, Beppe Fioroni e, ora, Maria Stella Gelmini. Ciascuno di questi Ministri ha ideato e messo in legge modifiche strutturali profonde. L’ultimo approdo, che pare al momento irreversibile, è quello dei regolamenti concernenti i Licei, gli Istituti tecnici, gli Istituti professionali. Tuttavia, poiché tutti questi cambiamenti vorticosi venivano scritti solo sulla carta, che il Ministro successivo faceva volare via, la scuola reale ha continuato la strada verso il declino della sua qualità. La percezione immediata e le indagini internazionali e nazionali confermano questa deriva. E confermano anche che la questione dei docenti/dirigenti è il passaggio a Nord-Ovest dell’intero sistema. Dopo l’approvazione dei Regolamenti, il cui itinerario reale è appena incominciato e continuerà su un terreno accidentato, resta del tutto irrisolta la questione. Paola Mastrocola su questo giornale ha dichiarato di condividere la proposta di Marco Rossi Doria di ripristinare l’esame al quinto anno di scuola elementare, per porre rimedio alla caduta della lingua italiana e della capacità di esprimere i nessi logico-sintattici. Tuttavia: se nelle tesi di laurea, se negli scritti di concorso per l’accesso alle professioni, se nei telegiornali e nella comunicazione mass-mediatica compaiono enormi strafalcioni non solo di ortografia, ma più gravemente di sintassi; se, dunque, si deve trarre la conclusione drammatica che i nostri ragazzi e i nostri giovani non riescono ad acquisire l’alfabeto fondamentale della vita e della professione; se, pertanto, «la battaglia per l’italiano» sta diventando “la battaglia del Piave” della nostra cultura e della nostra identità nazionale e della possibile e necessaria integrazione degli immigrati; se tutto ciò è vero, viene da chiedersi: esame di quinta elementare, di terza media, di maturità a chi? Ai ragazzi o ai loro insegnanti?
L’art. 29 del Contratto collettivo nazionale, pubblicato nel marzo del 1999, riguardante il trattamento economico connesso allo sviluppo della funzione docente, si proponeva il «riconoscimento della crescita professionale nell’esercizio della funzione docente» e una «una dinamica retributiva e professionale in grado di valorizzare le professionalità acquisite con particolare riferimento all’attività di insegnamento». Veniva data «la possibilità per ciascun docente, con 10 anni di servizio di insegnamento dalla nomina in ruolo, di acquisire un trattamento economico accessorio consistente in una maggiorazione pari a lire 6.000.000 annue», oltre 2.500 euro, più o meno. Il 20 per cento del personale di ruolo al 31 dicembre 2009 avrebbe potuto accedere a tale beneficio; la percentuale poteva salire al 30 per cento del personale con l’arrivo di nuove risorse. Tale maggiorazione veniva «a seguito del superamento di una procedura concorsuale selettiva per prove e titoli attivata ordinariamente nell’ambito della provincia in cui è situata la scuola di titolarità». La procedura concorsuale si articolava nella valutazione del curricolo professionale e culturale, debitamente certificato, e in prove riguardanti la metodologia pedagogico – didattica e le conoscenze disciplinari, da svolgersi anche mediante verifiche in situazione.
Il “concorsone” o “quizzone” fu travolto da un’onda di critiche e di mobilitazione sindacale avversa. Le critiche più scaltre non rifiutavano né il principio della valutazione della professionalità e di una carriera all’interno della funzione docente né quello della differenziazione retributiva in relazione allo svolgimento di funzioni diverse né l’eventuale articolazione della carriera in tre livelli: junior, esperto, master. Ma o perché il 20 per cento pareva arbitrario o perché mancava un profilo della carriera professionale del docente, o perché, semplicemente, mancava ormai solo un anno alle elezioni, Berlinguer fu costretto alle dimissioni e con lui anche “il concorsone”.
La doppiezza sindacale trionfava: avere spinto Berlinguer sulla scala a pioli del concorsone e avergliela sottratto, appena arrivato in cima. E rieccoci qua. L’età media dei docenti è cresciuta oltre i cinquant’anni, il fenomeno del burn out è in espansione, la preparazione degli allievi in diminuzione. Anche supposto che la procedura di formazione dei docenti fosse la migliore possibile – siamo in attesa da un anno del relativo Regolamento -, anche supposto che le modalità di reclutamento fossero già state definite – il PdL Aprea è sempre lì sul binario, in attesa di ripartire – senza la valutazione periodica degli insegnanti, per opera di un Servizio nazionale di valutazione, e senza le azioni conseguenti (aggiornamento culturale, differenziazione stipendiale, premiazione del merito, allontanamento dal servizio degli incapaci) non ci sarà miglioramento della qualità dell’offerta formativa. Immettere nel 2010 docenti ben formati e ben reclutati nel sistema educativo e poi abbandonarli per i prossimi quarant’anni al ritmo burocratico di una carriera lenta e piatta dal punto di vista retributivo, alla condizione di sottoproletariato intellettuale sottopagato e senza prestigio sociale, al rapido dis-aggiornamento culturale, alla solitudine e agli sberleffi di una società per la quale l’educazione è solo un tic ideologico di minoranze, tutto ciò richiede molto di più del severismo ideologico e demagogico verso gli studenti. D’altronde, gli insegnanti per primi sono ormai massicciamente disponibili alla valutazione. Tocca ora alla politica fare in fretta.