Un giovane di belle speranze, di vastissima cultura e di accesissima sensibilità, dalla natia provincia approda in città; ma le sue speranze e ambizioni si rivelano inconsistenti chimere, mentre egli — poco più di un ragazzo, ma con l’intelletto e il senso critico acuti e taglienti più di quelli di tanti uomini maturi — sprofonda nell’amarezza, nella disillusione, nella noia germogliata dalla frustrazione: no, non è la sintesi di un romanzo di Balzac, ma la storia dei mesi passati da Giacomo Leopardi, poco più che ventenne, a Roma, ripercorsi attraverso le lettere che il “contino” invia ai familiari.
Annota Emanuele Trevi, nel saggio posto a conclusione di questo originale e gustosissimo volumetto (G. Leopardi, Questa città che non finisce mai. Lettere da Roma, 1822-1832, Utet Extra, Torino, 115 pp., 5 euro), come si sia sempre ripetuto che la lingua italiana (almeno quella letteraria del Sette e Ottocento) è “poco adatta al romanzo” (p. 89). Addirittura, “si potrebbe dire che i loro migliori romanzi li italiani, per una forma sublime di snobismo, non li scrivono. Li vivono in prima persona, e quando è il caso ne affidano la memoria a tracce disperse, e poco affidabili. Lettere, memorie, diari, verbali di processi (…) È un’arte collettiva, quella del romanzo non scritto”, quasi “uno dei pilastri della nostra identità nazionale” (ibid.).
In questa congerie di preziose storie che restano di solito non scritte, le lettere inviate da Giacomo a Roma hanno il sapore amaro della disillusione: da subito, infatti, la città (non si può certo definire “metropoli” la Roma del primo quarto del XIX secolo, con i suoi nemmeno 70mila abitanti!) procura al recanatese una serie di cocenti delusioni, che egli così sintetizza il 6 dicembre 1822 scrivendo al fratello Carlo: “Domandami se in due settimane da che sono in Roma, io ho mai goduto pure un momento di piacere fuggitivo, di piacere rubato, preveduto o improvviso, esteriore o interiore, turbolento o pacifico, o vestito sotto qualunque forma. Io ti risponderò in buona coscienza e ti giurerò che, da quanto io misi piede in questa città, mai una goccia di piacere non è caduta nell’animo mio; eccetto in quei momenti ch’io ho letto le tue lettere, i quali ti dico senza esagerazione che sono stati i più bei momenti della mia dimora in Roma” (p. 13).
E il motivo di questa delusione — individuato con quella perspicacia da moralista che ha ispirato anche il non meno prezioso e troppo poco conosciuto Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani — è legato al fatto che l’uomo non può assolutamente vivere in una grande città, in uno spazio troppo vasto “perché la sua forza o facoltà di rapporto è limitata” (ibid.); pertanto, se è vero che “in una piccola città ci possiamo annoiare”, tuttavia, “alla fine i rapporti dell’uomo all’uomo e alle cose, esistono, perché la sfera de’ medesimi rapporti è ristretta e proporzionata alla natura umana”.
Al contrario “in una grande città l’uomo vive senza nessunissimo rapporto a quello che lo circonda, perchè la sfera è così grande, che l’individuo non la può riempire, non al può sentire intorno a sé, e quindi non v’ha nessun punto di contatto fra essa e lui. Da questo potete congetturare quanto maggiore e più terribile sia la noia che si prova in una grande città, di quella che si prova nelle città piccole: giacché l’indifferenza, quell’orribile passione, anzi spassione, dell’uomo, ha veramente e necessariamente la sua principal sede nelle città grandi, cioè nelle società molto estese” (pp. 13-14).
La lunga citazione, quasi d’obbligo, evidenzia tutta la potenza analitica dell’occhio sagace di Giacomo; per nulla intimidito dai fasti papalini e dalle grandiose rovine della Roma dei Cesari, il giovane conte ben comprende come quelle enormi distanze che si sperimentano in una grande città distanzino gli uomini, i quali, per reazione, si fanno ciascuno il suo circolo di amicizie, frequentazioni, conoscenze, ancora più ristretto di quanto non accadrebbe nelle piccole cittadine come Recanati stessa (cfr. anche p. 23).
Nessuna reverenza, e nemmeno nessun paludamento formale, traspare da queste lettere romane di Giacomo: non per nulla, Emanuele Trevi parla addirittura di una singolare educazione sentimentale. Educazione, sì, ma al nulla, alla disillusione; e così, queste pagine aiutano a ricostruire un ritratto assai poco ingessato di Leopardi, che, almeno con Carlo, adotta quel linguaggio libero che si può adottare solo con un coetaneo e con un fratello. Per esempio, parlando di un tal Peppe, egli annota che “invita mezzo mondo a mettergli tre braccia di corna” (p. 23); e ancora, quanto alle donne, egli non ne conosce di facili costumi (in verità la parola che Giacomo usa è assai più vivace e icastica, per non dire volgare!), ma aggiunge che, quanto alle donne di malaffare di basso livello “giuro che la più brutta e gretta civettina di Recanati vale per tutte le migliori di Roma”.
E quanto alle glorie letterarie che il giovane poeta sperava di mietere, anche in quest’ambito la delusione è in agguato: a Roma tutti sono pervasi dalla fregola di mostrare competenza antiquaria o archeologica, pur ignorando per la maggior parte — annota fra il divertito e l’amareggiato il Nostro, che fu anche uno dei maggiori filologi del suo tempo — le buone regole della morfosintassi e della stilistica greca o latina; e quanto al gusto per la poesia e le belle lettere, esso è quasi sconosciuto in Roma.
L’opinione di Giacomo è sempre tagliente e obiettiva, grazie alla sua intelligenza eccezionale, è vero, ma, forse, in parte, anche grazie a quella capacità, gravida di scetticismo, di lanciare uno sguardo demistificatorio sulle cose, tipica del provinciale acuto: per esempio, è indicativo di questo il suo ponderato e assennato giudizio sul grande caso letterario del tempo, l’edizione del De re publica di Cicerone curata da A. Maj, che aveva restituito alla lettura, grazie agli interventi sul celebre Palinsesto Ambrosiano, parti dell’opera che si ritenevano perdute irrimediabilmente.
Leopardi, che pure dedicò uno dei suoi Canti al Maj, e che è certo consapevole del valore storico-antiquario e filologico della scoperta, si esprime tuttavia con un equilibrio impeccabile per un ventiquattrenne: “Non ho comprato la Repubblica del Mai (la quale ho avuto in prestito e la sto leggendo) e se il mio giudizio è di niun valore io la consiglio (Leopardi qui si sta rivolgendo al padre Monaldo) a non prenderla. Il prezzo, in carta infima, è di paoli trentatré: la materia non ha niente di nuovo, e le stesse cose dice il medesimo Cicerone in cento altri luoghi. Di modo che l’utilità reale di questo libro non vale il suo prezzo. Se si trattasse di completare una Biblioteca o una Collezione, non direi così; ma noi non siamo nel caso” (p. 29).
E quanto al progetto di seguire qualche ricco e nobile signore straniero di passaggio a Roma nel suo Paese, benché Leopardi sappia che “le incette di letterati italiani ancora durano”, e anzi, “parecchi letteratucci romani … hanno fatto fortuna, o, se non altro, campano bene in quei paesi” (p. 42), tuttavia, pur sapendo come questi signori stranieri concedano volentieri stima e grandi introiti a qualsiasi piccola dote letteraria che si possa mostrare, Giacomo ha sempre coltivato l’ambizione di essere non un mero specialista di antiquaria, o solo un filologo, per quanto di eccelsa perizia, bensì un poeta filosofo; per cui, annota amaramente che “la filosofia, e tutto quello che tiene al genio, insomma la vera letteratura, di qualunque genere sia, non vale un c…. con gli stranieri; i quali, non sapendo quasi niente d’italiano, non gusterebbero …. le più belle produzioni che si mostrassero loro in questa lingua; e non prendono nessun interesse per chi brilla in un genere di studi inaccessibili per loro” (pp. 42-43).
Il disincanto, l’amara acutezza, la sottilissima capacità di analisi, sono i segni distintivi di questo provinciale dall’intelligenza universale; tornato nuovamente a Roma, quasi dieci anni dopo il primo viaggio, e sul punto di lasciare la Città Eterna per far ritorno a Firenze, il 16 marzo 1832, Giacomo sembra quasi sentirsi in colpa scrivendo alla sorella di partire “senza aver riveduto S. Pietro, né il Colosseo, né il Foro, né i Musei, né nulla” (p. 85). Ma, annota saggiamente Trevi (cfr. p. 114) “ci sono individui …. che non hanno bisogno di vedere ciò che vedono tutti gli altri, si tratti pure delle meraviglie di Roma”.