Professor Bertagna, la vicenda dei tagli alle scuole paritarie, non solo per l’anno prossimo ma addirittura per l’anno in corso, spinge a una prima considerazione politica: perché un governo di centrodestra, che parla di parità nel suo programma, attua una politica di questo genere?
Io non sono un politico, e non posso giudicare la complessità degli eventi e la complicatezza amministrativa che sottende a queste vicende. Ma una cosa la posso dire chiaramente: questo è l’esito necessario di un’erronea impostazione del problema. Non se ne uscirà mai se si continuerà a limitare il discorso al solo problema dei fondi, previsti, non aumentati o tagliati che siano. Altrimenti ogni anno arriva la Finanziaria e si litiga su questo punto. È tutto parte di un’impostazione sbagliata che ha radici lontane. Certo che non si può che condannare quanto lei diceva; ma tutto ciò non è altro che uno degli effetti della camicia di Nesso che il Paese ha indossato nel momento in cui ha tradito in modo esplicito quelli che sono gli aspetti essenziali di tutta questa tematica.
Quali sono le radici lontane di cui lei parla, e che ci hanno portato a questa situazione?
La prima ragione è di natura storica. Nel nostro Paese la scuola è stata costruita, fin dall’unità d’Italia, in modo dichiarato, esplicito e senza alcuna dissimulazione come apparato ideologico dello Stato, un modo cioè per disciplinare le menti dei selvaggi affinché diventassero dei civilizzati, secondo l’idea di civiltà che la legge aveva stabilito. In questa maniera si è costruita una storia in cui la scuola non è mai stata autonoma, ma è stata considerata un ufficio periferico a disposizione dei governi e dello Stato, per realizzare i suoi disegni. Disegni magari anche buoni, e che non intendo giudicare: ma di fatto la scuola è stata considerato uno strumento, e mai un’occasione di servizio per fini educativi che valorizzassero le persone. Dopo di che è intervenuta la Costituzione, che avrebbe dovuto cambiare le cose, ma che è stata tradita.
In che senso è stata tradita la Costituzione? Il discorso del tradimento costituzionale è di solito usato da chi si oppone al finanziamento alle scuole non statali…
Bisogna chiarire bene, e rendersi conto che c’è un tradimento generale del modo di impostare il sistema di istruzione e di formazione, così com’era previsto dalla Costituzione del ’48, e confermato nel 2001. La Costituzione era molto esplicita in proposito: rifiutava la concezione della scuola come apparato ideologico dello Stato, sia perché si veniva dall’esperienza tragica del fascismo, sia perché i cattolici per la prima volta erano giunti al governo del Paese, ed erano depositari di una tradizione e di una concezione della scuola che era agli antipodi dell’impianto strumentalistico da cui si proveniva. Se si guarda l’articolo 33 della Costituzione, coniugato con l’articolo 5, si ricava la nettissima disposizione per cui il nostro sistema di istruzione avrebbe dovuto ben distinguere tre funzioni: la funzione della Repubblica, dello Stato e delle scuole. Per Repubblica si intendeva il Parlamento che sintetizzava in sé tutte le componenti. Non solo Regioni, Province e Comuni, ma anche tutte le formazioni sociali di cui parla la prima parte della Costituzione: famiglia, imprese, cooperative, sindacati, Chiese. Alla Repubblica competeva di dettare le norme generali sull’istruzione e di fare in modo che in tutto il Paese ci si ispirasse ai principi della Costituzione.
Quale avrebbe dovuto essere invece la funzione dello Stato?
Lo Stato doveva semplicemente fare due cose: da un lato istituire le scuole, avendo l’obbligo di far sì che non fossero penalizzate le famiglie che risiedevano in zone geografiche dove non c’era un’espressione sociale capace di dare vita a scuole non statali; dall’altro doveva fare in modo che si instaurasse un sistema positivamente competitivo, in cui ci fosse spazio per il sistema dello Stato e parallelamente per le scuole non statali. Nella Costituzione la cosa più importante non è il «senza oneri per lo Stato», che pure ha una sua ragione, ma è il comma 4 dello stesso articolo, relativo alla equipollenza di trattamento per gli studenti che frequentano le scuole statali e per quelli che frequentano le scuole non statali. La questione della parità non si gioca a livello di assegnazione di privilegi, ma del riconoscimento che i cittadini della Repubblica hanno il diritto di essere trattati allo stesso modo, giuridicamente ma anche economicamente, sia che frequentino le scuole istituite dallo Stato, sia che frequentino le scuole non istituite dallo Stato. E queste ultime devono essere valorizzate in quanto promosse dalle formazioni sociali di cui alla prima parte della Costituzione. E a questa funzione dello Stato si ricollegava infine la funzione del controllo.
In cosa consiste?
Attraverso gli esami, che siano essi di Stato o invece esami di ammissione, lo Stato deve controllare la qualità degli apprendimenti degli studenti, e deve contemporaneamente controllare che le scuole che chiedono la parità rispettino le norme generali dell’istruzione stabilite dalla Repubblica, e non tradiscano i principi costituzionali. Lo Stato invece ha abbandonato questa funzione di controllo: è rigidissimo sulle procedure, ma non attua alcun controllo della qualità dell’apprendimento.
Chiarite le funzioni di Repubblica e Stato, qual è il ruolo delle scuole previsto dalla Costituzione?
Alle scuole, sempre secondo l’impostazione originaria della Costituzione, competeva la massima autonomia. Date le norme generali sull’istruzione e dato il controllo che lo Stato doveva attuare affinché tali norme fossero rispettate, non era previsto che di mezzo ci fosse un ministero che dettava, chiosava, ammoniva anno dopo anno, interveniva a chiarire, a correggere, a cambiare, con una continua profusione di norme e circolari. In mezzo c’era solo l’autonomia delle istituzioni scolastiche. Io mi domando perché nel nostro Paese questa nettissima soluzione di continuità che la Costituzione del ’48 doveva e voleva creare rispetto alla concezione precedente non sia stata per nulla rispettata. Si è proceduto con l’impostazione precedente, creando i problemi che abbiamo.
Che cosa concretamente può permetterci adesso di uscire da questa situazione?
Dobbiamo renderci conto di quanto quella impostazione che la Costituzione prevedeva sarebbe più vantaggiosa. E qui si inserisce il terzo elemento che manca nel nostro sistema: la conoscenza scientifica ed empirica. Noi non abbiamo numeri e ricerche, né investimenti in ricerca in questo campo. Non abbiamo ricerche che ci aiutino a chiarire e a capire quanto un sistema convenga e quanto sia più efficiente rispetto ad un altro: dobbiamo ricorrere a dati generali. Abbiamo i dati Ocse, ma non abbiamo ricerche empiriche come quelle che vengono fatte in America. Noi non abbiamo un know-how che ci dimostri se funzioni meglio l’impianto della costituzione formale o quello della costituzione materiale. Non avendo questo ci riduciamo a impostare il dibattito sull’ideologia, e mai sull’aspetto scientifico: dove questo aspetto c’è, invece, viene dimostrato il contrario di quello che si sostiene in Italia. Basti vedere quello che ha fatto la Svezia, che ha abbandonato totalmente l’impostazione statalista per favorire la libera scelta.
Sembrerebbe esserci un caso in Italia in cui la parità viene garantita: è il caso della Regione Lombardia, con la cosiddetta “dote scuola”.
Certo, e questo può aprire un varco importantissimo. Se una regione come la Lombardia, che effettivamente è molto avanti su questo aspetto, continuasse a pigiare su un sistema paritario favorendo la scelta degli studenti e favorendo anche il controllo per dimostrare che i risultati siano acquisiti, potremmo ottenere dei risultati importanti anche a livello nazionale. Se cioè empiricamente, con i numeri, si riuscisse a dimostrare anche sul nostro territorio quello che nelle ricerche all’estero già emerge, e cioè che si spende di meno e si impara di più in un sistema basato sulla libera scelta, allora potremmo sperare che di fronte a tali argomentazioni empiriche possano finalmente cadere le ragioni ideologiche.