Sono passati settant’anni. La tragedia della guerra che ha travolto l’Italia all’inizio degli anni ‘40 del secolo scorso non fu solo una catena di combattimenti e di distruzioni, fu anche il dramma di un popolo con migliaia di persone strappate dalla loro radici, dalle loro case, dalla trama importante dei rapporti umani. Gli sfollati.
Un grande esodo dalle grandi città alle campagne, dai territori di confine ai piccoli centri, dalle regioni contese tra Alleati e tedeschi alla Pianura padana per quanti ebbero nel dramma la fortuna di fermarsi a metà strada sulle tradotte che portavano ai campi di concentramento e di genocidio.
Storie di uomini, di donne, di bambini protagonisti della Storia del nostro Paese, i primi artefici di quella ricostruzione nazionale che produsse in pochi anni il miracolo economico sulle macerie del fascismo.
Luciano Ghelfi, giornalista ora al Tg 2, racconta quel dramma (“Sfollati, una storia italiana”, Ed. Tre lune, pag. 260, € 16) attraverso la testimonianza diretta di sua madre Milena, che a dodici anni fece parte di quel convoglio che portò i suoi genitori e i suoi sette piccoli fratelli dal litorale pontino a uno sconosciuto paesino del Nord di nome Bozzolo. Ma Ghelfi ha affiancato alla testimonianza profondamente umana della sua famiglia una ricerca attenta e scrupolosa negli archivi e nei registri di Comuni e parrocchie, oltre che nei ricordi di quanti hanno vissuto quei drammatici eventi.
Nel libro emergono così molti elementi di grande interesse non solo storico e politico, ma anche sociale ed umano che aiutano a comprendere e a mettere nella giusta luce le vicende italiane di quel periodo, ma non solo. C’è la dissoluzione della classe dirigente di un Paese dopo l’8 settembre del 1943, c’è il dramma di una guerra che sembra disperdere l’umanità, ma c’è il coraggio e la tenacia delle persone nella vicenda di Nicola Pizza, operaio delle Ferrovie dello Stato, di sua moglie Raffaella e dei suoi otto figli che si sono trovati all’improvviso nel cuore di un conflitto inimmaginabile.
Cacciati dalla loro casa, costretti a nascondersi nei fienili tra i monti, caricati su un treno merci che li porterà in sei giorni nella Pianura padana, accolti spesso con malcelata irritazione, ma anche testimoni e protagonisti di episodi di grande umanità e di spontaneo spirito di condivisione. Spicca in questa storia la figura del prete di Bozzolo, quel don Primo Mazzolari, che è stato un grande artefice di solidarietà e di passione umana, unita a uno spirito organizzativo e a una grande capacità di motivazione per ridare fiducia e speranza. Don Primo è il punto di riferimento, la certezza, in un momento in cui sembrano mancare le più semplici prospettive di vita.
Così come forti sono le motivazioni e il senso del dovere del ferroviere Nicola. Particolarmente significativa è la sua volontà di mettersi subito alla ricerca di un impiego appena sceso dalla squallida tradotta che lo ha portato con la sua famiglia al Nord. Tanto da cercare di infilarsi in un gruppo diretto in un paese dove ci fosse una linea e soprattutto la stazione ferroviaria in modo da proseguire al più presto l’unico lavoro che sapeva di poter fare con competenza e dignità. E all’arrivo a Bozzolo, dopo aver messo al sicuro la famiglia, è proprio per la stazione il suo primo pensiero e la sua prima richiesta di informazioni.
Insieme in questa storia di vita reale c’è una dignità, spezzata dalla violenza delle persone e degli eventi, e la stessa dignità esaltata dalla profonda volontà di lottare e sperare in ogni momento nella possibilità di vita migliore. E proprio nel momento in cui la Provvidenza sembra abbandonare le persone ecco che essa stessa offre la possibilità di ricostruire.
In molte pagine di questo racconto si coglie la stessa prospettiva che Alessandro Manzoni ha voluto dare ai Promessi sposi: umili protagonisti, che subiscono i soprusi e le angherie dei potenti e che patiscono qualsiasi disgrazia, ma che tutto accettano nella convinzione il Signore “non turbi la gioia dei suoi cari se non per prepararne loro una più bella e più grande”. Accettazione che non vuol dire rassegnazione, ma che è tale da impedire che nascano peraltro comprensibili sentimenti di odio e di vendetta. La famiglia Pizza e don Primo Mazzolari sono un modello di vivere cristiano e quindi profondamente umano.