Divide i lettori, gli autori e i critici. Alcuni mal sopportano il tipo d’uomo, altri lo adorano e proprio per quello lo imitano, o meglio lo imitavano. Hemingway ha fatto storia, nella letteratura e nella vita, ispirando con la sua biografia generazioni di scrittori e di lettori. Forse non i più giovani; senz’altro quelli degli ultimi cinquant’anni. Morì suicida il 2 luglio 1961, in Idaho. Di lui ilsussidiario.net ha parlato con Vita Fortunati, anglista, docente nell’università di Bologna.
Vita Fortunati, siamo di fronte ad una vita disordinata e avventurosa che ha dato però alla letteratura dei capolavori.
È vero: il mito di Hemingway, soprattutto in Italia, si basa questa immagine, di un uomo dalla vita avventurosa, segnata dall’intemperanza, da un certo machismo. Piena, insomma, di contraddizioni. La sua fortuna in Italia è stata moto alterna, ma al di là di questo penso che Hemingway resti un classico.
Quali sono le produzioni di Hemingway che lei preferisce?
I suoi racconti, soprattutto I racconti di Nick Adams e poi Il vecchio e il mare. Credo che il suo contributo alla crescita del racconto resti fondamentale. Amo più i racconti dei romanzi perché mi sembra che nei primi dia il meglio del suo stile: conciso, asciutto, capace di rendere il dialogo come pochi altri. È questa una delle cose che tra l’altro Calvino amava di più in Hemingway, e resta, credo, una grande lezione per tutti gli autori successivi, italiani compresi.
Pavese fece conoscere Addio alle armi a Fernanda Pivano, che divenne poi sua traduttrice, per farle capire la differenza tra letteratura inglese e americana. Qual è secondo lei?
Fare generalizzazioni è sempre molto difficile, oltre che scorretto, ma penso che la differenza maggiore tra un Hemingway come scrittore americano e gli scrittori inglesi stia nel modo in cui Hemingway ha saputo coniugare il suo impegno pratico, la sua miriade di attività, con un alto senso della sua arte e del suo essere artista. Ma l’avventura in lui non diviene mai retorica; ecco, questa mancanza di retorica nello scrivere è il suo lato più autenticamente americano. Non è un caso che abbia rappresentato il mito dell’America per molti scrittori americani.
Cosa pensa invece del suo influsso su scrittori italiani come Vittorini, Pavese, Calvino…?
Soprattutto durante il fascismo, Hemingway ha rappresentato il mito dell’America libera e democratica, quindi la cultura «altra» che era mancata all’Italia proprio nel ventennio. La letteratura italiana, rispetto a quella americana, era allora molto più paludata, provinciale. La prosa di quel giornalista reporter si basava sulla descrizione in presa diretta della realtà quotidiana, sulla sua resa in modo conciso, essenziale, scarno. Una novità, e dunque un fattore di ispirazione molto importante per i nostri scrittori nel periodo tra le due guerre.
La sua influenza non fu solo letteraria, ma si estese anche al modo di intendere la vita. Come lo spiega?
È vero. Questo connubio tra la sua capacità di intraprendere molte attività, e di essere al contempo uno scrittore molto serio e laborioso sul piano della parola, ha affascinato gli scrittori e i lettori italiani nella seconda metà del novecento – anche se poi è arrivato, come spesso in questi casi, il momento della decostruzione del mito di Hemingway, come uomo e come persona. In ogni caso, molti racconti – pensiamo, su tutti, a Il vecchio e il mare – mettono in evidenza l’inimitabile capacità che ha avuto Hemingway di vedere nella vita di ogni uomo un momento tragico, e di renderlo in modo profondamente pessimista. La sua era una visione della vita tragica, laica fino al nichilismo. Una vita che l’uomo deve affrontare al pari di una sfida.
Ma allora è questa visione della vita il vero motivo del suo successo, oltre la trasgressione e l’innovazione letteraria?
Direi di sì. Quello della sfida in Hemingway è un codice esistenziale: cacciare il grande pesce, o affrontare il toro nella corrida, o la guerra per il soldato, è un simbolo della vita. L’uomo deve avere il coraggio di affrontarla.
Il vecchio e il mare contribuì a fargli assegnare il Nobel. È il suo capolavoro?
È un’opera della maturità che in effetti ricapitola molto, quasi tutto dell’autore in modo straordinario. Pensiamo al tema del rapporto tra generazioni, cioè tra il vecchio Santiago il giovane, che ritorna anche in altri racconti di Hemingway; c’è l’attenzione alla realtà concreta della cultura cubana, resa in tutti i suoi dettagli; vi si ritrova la grande passione di Hemingway per la pesca, un mestiere che si potrebbe leggere come simbolo del suo lavoro di scrittore. Senza dubbio è un grande racconto.
Che cosa resta oggi di Hemingway come giornalista?
Una grande lezione di osservazione diretta della realtà. La sua attività di giornalista gli è servita per creare lo stile che conosciamo, conciso, essenziale, basato sull’osservazione e sulla resa espressiva delle cose.
Come scrittore?
Ha dato agli scrittori una grande lezione di stile, valida anche per quelli più giovani. Pensiamo alla sua teoria dell’iceberg: nel racconto e nel romanzo doveva venire fuori solo la punta dell’iceberg perché era quello che veramente poteva interessare al lettore, mentre tutto quello che l’autore aveva appreso attraverso l’esperienza rimaneva sotto il livello dell’acqua, tolto, invisibile, nondimeno «presente» attraverso la sua forza evocativa. Nessuna prosa esiste senza un lavoro assiduo sulla parola.
E come uomo?
Come uomo? Difficile rispondere. Se prendiamo l’Hemingway di Addio alle armi, la sua opera è la testimonianza di un’intera generazione distrutta dalla guerra. In lui questa sconfitta prende la forma di un approccio tragico al senso della vita. L’amore per l’avventura, il continuo viaggiare, l’avidità di esperienze, sono state forse in lui un modo per stigmatizzare la paura della morte. E questo mi sembra un tratto che lo fa essere ancora nostro contemporaneo.