Il 12 ottobre il Consiglio di Stato ha espresso parere favorevole (n. 4265) sullo Schema di regolamento del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, recante “Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione”, ai sensi dell’articolo 1, comma 4, del decreto del Presidente della Repubblica 20 marzo 2009, n. 89. In attesa del documento ufficiale, sotto forma di regolamento ministeriale, che a conclusione dell’iter di revisione dell’assetto ordinamentale, organizzativo e didattico della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione, introdurrà nel mondo della scuola tali indicazioni, può essere utile interrogarsi fin da ora sull’utilità e sull’utilizzo di tale documento.
Innanzitutto occorre mettere a tema una questione sostanziale per chi fa scuola: che rapporto c’è tra l’autonomia scolastica e la standardizzazione su scala nazionale degli obiettivi generali del processo formativo e specifici di apprendimento. In altre parole: perché ogni scuola non può stabilire in piena autonomia i suoi obiettivi?
Tale domanda è all’origine di un dibattito vivo da oltre un decennio, nato con l’emanazione del Decreto del Presidente della Repubblica 8 marzo 1999, n. 275 in cui si legge (art. 2): “L’autonomia delle istituzioni scolastiche è garanzia di libertà di insegnamento e di pluralismo culturale e si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona umana, adeguati ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti, al fine di garantire loro il successo formativo, coerentemente con le finalità e gli obiettivi generali del sistema di istruzione e con l’esigenza di migliorare l’efficacia del processo di insegnamento e di apprendimento”. Quell’avverbio, “coerentemente”, ha scatenato nel mondo della scuola ampie e articolate discussioni circa il margine di libertà concessa a ciascuna istituzione di predisporre un piano dell’offerta formativa che fosse reale espressione della propria autonomia. Vi sono, sul territorio nazionale, esempi mirabili di istituti che in nome della libertà di insegnamento e delle esigenze dell’utenza reale hanno realizzato vere scuole, cioè luoghi di crescita culturale e umana dei loro studenti, e altre che non hanno saputo accogliere la sfida dell’autonomia, per una sostanziale paura dell’esercizio della libertà.
Anche nelle Indicazioni nazionali di prossima pubblicazione viene richiamata l’autonomia delle scuole, come si legge nel capitolo dedicato alle Finalità generali: “L’ordinamento scolastico tutela la libertà di insegnamento (articolo 33) ed è centrato sull’autonomia funzionale delle scuole (articolo 117)” e contemporaneamente l’intenzione di “fissare gli obiettivi generali, gli obiettivi di apprendimento e i relativi traguardi per lo sviluppo delle competenze dei bambini e dei ragazzi per ciascuna disciplina o campo di esperienza”. Dunque la questione non è risolta (probabilmente non si risolverà mai, a meno che non venga abolito il valore legale del titolo di studio che necessariamente impone a tutti gli studenti italiani il raggiungimento di obiettivi comuni e standardizzati).
Però viene indicata una strada interessante a chi volesse essere protagonista dell’impostazione della sua scuola: “le Indicazioni costituiscono il quadro di riferimento per la progettazione curricolare affidata alle scuole. Sono un testo aperto, che la comunità professionale è chiamata ad assumere e a contestualizzare, elaborando specifiche scelte relative a contenuti, metodi, organizzazione e valutazione coerenti con i traguardi formativi previsti dal documento nazionale” (così si legge nel capitolo L’organizzazione del curriculo). A dire: lo Stato fissa dei traguardi standard per tutti gli studenti italiani, ma lascia la libertà ai singoli istituti e ai singoli docenti di scegliere, inventare, testare contenuti e metodi per raggiungerli. Certo, una libertà condizionata, concessa dall’alto, ma al contempo un invito per i docenti a riappropriarsi delle proprie discipline, dei saperi che introducono i giovani alla conoscenza della realtà e di sé stessi.
Si potrebbe far scorrere fiumi di parole – e sicuramente lo si farà – per analizzare e giudicare le Indicazioni, entrando nel dettaglio, obiettivo per obiettivo della sua liceità ed essenzialità nel percorso formativo. Così come si potrà criticare – e lo si è già fatto – alcune scelte ministeriali relative all’impostazione della scuola e alla concezione delle discipline come attestate nelle Indicazioni. Per questo c’è tutto il tempo che le scuole e gli esperti del settore vorranno prendersi. Più urgente invece, a parere di chi scrive, che nelle scuole si inizi (o si continui) a lavorare seriamente sulla proposta formativa rivolta ai propri studenti. E a tale proposito le Indicazioni suggeriscono tra le righe due aspetti meritevoli di riflessione: la verticalità e l’interdisciplinarità.
La scuola del primo ciclo viene presentata in un unico capitolo nelle Indicazioni, a dire che il percorso che porta dall’ingresso nella scuola primaria alla scelta degli indirizzi di studio di quella superiore non può non essere pensato unitariamente. Ciò non significa che i due segmenti scolari (la scuola primaria e quella secondaria di I grado) non abbiano una loro specificità, motivata innanzitutto dalle differenti esigenze del bambino e del ragazzo, tant’è che obiettivi e traguardi vengono nel testo differenziati. Però è importante che dirigenti e docenti di tali scuole, spesso coesistenti nello stesso plesso e facenti parte di istituti comprensivi, inizino a confrontarsi, a progettare insieme, anche semplicemente iniziando a raccontarsi l’un l’altro.
A volte infatti la volontà di progettazione comune trova ostacoli insormontabili perché si ha la pretesa di programmare una strada perfetta per raggiungere un traguardo, ma in modo teorico, decontestualizzato, e si finisce per perdersi in discussioni sterili. Diverso è partire dalla condivisione di quanto è già in atto nella propria scuola, per rendere innanzitutto sé stessi consapevoli delle scelte fatte e per farne partecipi i docenti del segmento scolare precedente o successivo. Sarà così quasi naturale, nel dialogo, trovare occasioni per correggere, ridefinire, rendere più funzionale l’esistente. Un curriculum in verticale non può consistere banalmente nella distribuzione di contenuti da affrontare nell’uno o nell’altro segmento scolare, anche perché la conoscenza non avviene in modo meccanicamente progressivo. La ricorsività è sempre stata una componente ineliminabile della formazione della persona, la quale per conoscere ritorna sugli stessi oggetti indagandoli secondo prospettive e ambiti di ricerca differenti in vista di un ampliamento e di un approfondimento. Un andamento a spirale piuttosto che lineare.
Un curriculum allora, prima di diventare un testo programmatico, consiste nella comune riflessione sull’esperienza didattica e formativa che i docenti quotidianamente fanno nelle loro aule. A tale riflessione il dirigente dovrebbe innanzitutto dar tempo e spazio, magari liberando i suoi docenti da tante incombenze burocratiche e invitandoli a dialogare tra loro e ad attestare le loro riflessioni e scoperte. Questa è la via privilegiata anche per realizzare nella propria scuola l’interdisciplinarità, che non nasce da un forzoso abbinamento di discipline (in tal senso le nuove Indicazioni fanno un passo avanti rispetto alle precedenti, eliminando il raggruppamento delle discipline in aree), né da un programmatico adeguamento della propria disciplina al raggiungimento di traguardi comuni, bensì dall’approfondimento di contenuti e metodi di ciascuna disciplina. Lo studioso sa (e il docente è sempre in ricerca) che quando approfondisce un oggetto di conoscenza si trova a dover mendicare l’aiuto di altre discipline per sciogliere nodi, comprendere nessi, progredire nella ricerca: è qui che nasce l’interdisciplinarità tanto auspicata nel mondo della scuola e dalle nuove Indicazioni.