Tutti conosciamo, grazie a Omero e a Monti, l’ira funesta del pelide Achille, “che infiniti addusse lutti agli Achei”. L’ira è dunque causa di morte? Ripensando alla cronaca dei primi mesi di quest’anno, si direbbe di sì, per quanto poco si sappia per fortuna di tanti fatti di sangue.
Non è allora solo un “brevis furor”, una breve follia, come volevano i latini? Certo, l’ira è una passione che può esaurirsi con la stessa velocità con la quale insorge, ma può anche essere coltivata, rafforzata da ingannevoli pretesti, diventare lungo rancore e risentimento sordo e duraturo. Oppure può piegare verso la depressione, una morte anticipata che fa male a chi la nutre, prima che a colui al quale è indirizzata.
San Paolo, che non doveva essere esente dall’adirarsi, sia prima sia dopo la sua conversione, esorta i fedeli di Efeso a fare in modo che “non tramonti il sole sopra la vostra ira”. Dunque sa e ammette quanto essa sia inevitabile, anche per gli animi più miti, ma invita a non mantenerla troppo a lungo, a non farla diventare criterio dell’azione: “nell’ira, non peccate” e, nel versetto seguente “e non date occasione al diavolo”. Satana rimesta dentro il fumo dell’ira la menzogna di credersi con ogni diritto offesi e dunque risentiti, falsa luce che rivela la propria illusorietà nella privazione della serenità del cuore. Con lui all’opera l’ira da impulso incontrollato diventa cattiveria voluta, giudizio duro sugli altri, rigidezza nel mantenere una posizione scomoda anche per se stessi. Giotto ha dipinto nella Cappella degli Scrovegni a Padova il demonio mentre mangia i dannati.
Ci sono stati nella storia della Chiesa molti santi che cedevano spesso all’ira: san Girolamo, il traduttore della Santa Scrittura ripeteva a Dio: “Miserere mei Domine, qui dalmata sum”, abbi pietà di me, Signore, perché sono dalmata e quella regione era nota per il brutto carattere dei suoi abitanti. San Bernardo, nonostante la dolcissima prosa dei suoi scritti, che l’ha fatto denominare come “doctor mellifluus”, dottore dolce come il miele, probabilmente a causa del suo zelo per l’ortodossia era un iracondo e la sua azione contro chi riteneva colpevoli di eresia e persino le sue parole a papa Eugenio III, suo antico monaco, non badavano a invettive e condanne.
Dante dedica invece agli iracondi dannati nell’Inferno della palude stigia poche terzine e ne nota la violenza con cui si mordono l’un l’altro, in un clima fosco, quasi a ricordare il proverbiale fumo dell’ira; ma al centro del poema, proprio nella nebbia che avvolge chi si era pentito della sua ira, affida al giudice Marco Lombardo la luce della dottrina del libero arbitrio: “lume v’è dato a bene e a malizia”, confutando ogni determinismo celeste e terreno. Oggi sembra che la psicologia spieghi tutto, ma anche nell’opacità dei nostri meccanismi esiste più al fondo un punto di coscienza netta, la consapevolezza di essere creature fatte a immagine di un Dio che vuole il bene.
Esiste dunque la possibilità se non di vincere, almeno di dominare l’ira. Non alludo ai metodi costrittivi di cui sovente parla Mario Tobino nei suoi libri sul manicomio di Lucca, dove le “agitate” venivano chiuse in piccole celle vuote e tenute in continua osservazione. Santa Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo, la giovane carmelitana in apparenza tutta dolcezza, era invece una combattente. E insegna un metodo più semplice, applicato da lei molte volte contro “le punture di spillo” che connotano la vita del monastero: la diserzione, termine non a caso preso dal linguaggio militare. Quando qualche gesto o parola delle consorelle la irritava, consapevole che non avrebbe saputo conservare la carità, fuggiva e in breve ritrovava la sua pace. Argutamente commenta uno di questi episodi: “Non era un atto di grande valore, è vero, ma credo tuttavia sia meglio non esporsi alla battaglia quando la sconfitta è sicura”.