Dall’1 settembre fino al primo giorno di scuola forse non ci avevamo pensato. Eravamo profondamente immersi in questioni imprescindibili come le liti sulle nomine delle funzioni strumentali e su chi doveva intascarsi il bonus, i lamenti da bar sulle deportazioni dei colleghi e le richieste del sabato come giornata libera. D’un tratto, alle 8 di un giorno qualsiasi di settembre, comparvero gli studenti. Chi sono questi qua?!? Lo scontro frontale con quella rumorosa voglia di vivere e con quella incorreggibile malavoglia è uno schiaffo in faccia: un ritorno, brusco, della realtà.
Non tutti, però, accusano il colpo. Gli anestetici sono potenti. Eppure l’impatto umano dei primi giorni dice tutto. Ci sono insegnanti che il primo giorno non trovano altro da proporre che un test d’ingresso: per conoscere la classe, dicono. Come se si potesse conoscere una persona attraverso un test: chissà se anche i loro mariti e i loro figli li hanno conosciuti così. Altri si rifugiano nell’evergreen del predicone su quest’anno che sarà diverso dagli altri perché ora faremo sul serio e bla bla bla. La noia dopo pochi minuti appesta l’aria impadronendosi di tutto lo spazio vuoto. Qualcuno però non vuole lasciare il proprio cuore in alto mare. Incuriosita dalla materia nuova, una ragazza chiede al suo insegnante cosa l’abbia spinto a studiare filosofia: e lui non le offre altra risposta se non “prima mi ero iscritto ad architettura ma poi ho capito che non era per me”. Complimenti.
Sara fa il secondo liceo scientifico, e il primo giorno torna a casa con «la sensazione che tutto sia poco, anche se ho davanti il mondo da scoprire, perché nessuno mi fa vedere la bellezza che c’è in quello che studio e, se ci provo, non ne sono capace». È un dolore acuto, che si apre un varco fra la rassegnazione collettiva all’ineluttabile ovvietà dell’andare a scuola perché ci tocca. Chiedi a qualche ragazzo, dopo i primi giorni di scuola, se c’è stata almeno un’ora di lezione bella: qualcuno sbarra gli occhi quasi fosse una domanda totalmente assurda. Chi però si sente trafitto dalla pochezza generale vive «la sensazione di essermi persa un sacco di cose», con l’aggravante che «quella voglia che ho di capire viene spenta da com’è l’ambiente»: un ambiente in cui si comincia dando per scontato il motivo per cui un ragazzo dovrebbe mettersi a studiare. “Quest’anno leggiamo I promessi sposi“: e perché, scusi? ne vale la pena? Su questa domanda si continua a glissare. Il primo giorno avverti tutto lo stridore, l’insensatezza, ma il giorno dopo ti abitui di nuovo, e il cuore si arrende al così fan tutti: non rimane che abbassare la testa e di tanto in tanto chiacchierare con i vicini di banco. Ma alla fine di una mattinata passata così, Sara sente che è molto più umano il disgusto del primo giorno, che almeno le aveva fatto sentire, dirompente, «il cuore che affermava di volere altro», infinitamente di più.
Alessandra invece è al terzo anno. Anche il suo primo giorno è una delusione: «stamattina i miei professori mi hanno fatto incazzare, perché sembrava di guardare il vuoto, di essere seduta sul divano a fissare la parte bianca». Le prende quasi una tenerezza per loro: «voglio che voi mi diciate cosa ci trovate di bello nella vostra materia, voglio sapere perché siete qui davanti a me e non da un’altra parte». Invece passano quattro ore e niente: piovono «le domande solite che ti fanno i professori alle quali mai nessuno risponde sinceramente».
Maria Lidia, però, la mattina le ha mandato un messaggio: «sii te stessa al cento per cento, goditela». Allora Alessandra prende coraggio, e mentre tutti rispondono ritualmente che da quest’anno si aspettano “niente debiti”, si alza e dichiara pubblicamente: «io voglio solo essere presente a me stessa, esserci davvero in tutto quello che faccio». La classe ridacchia, ma lei non si sente più sola: si scopre insieme ai suoi amici che la aiutano a essere se stessa. Sì, perché se l’aiuto non viene dall’ambiente, allora uno va a cercarselo fuori. Tant’è vero che la cosa più bella che può succedere a scuola non è nemmeno una lezione trascinante a cui assisti da spettatore compiaciuto: la cosa più bella è quando succedi tu, quando finalmente ci sei.
La mattina dopo fai ancora fatica ad alzarti, ma ti rendi conto che la vita è una lotta principalmente contro se stessi, tra la propria indifferenza e la convenienza di giocarsela tutta. È dura, certo: perché il pomeriggio Alessandra ha da tradurre, e a metà versione non sta capendo niente. Ma il cuore, ancora, torna a farsi sentire: «Nel momento in cui ho capito che quella versione l’aveva scritta un uomo come me, con le mie stesse domande, che aveva messo tutto se stesso in quello che aveva scritto e che io tanto stavo odiando, è cambiato tutto. Cesare non era più uno da bestemmiare perché ti fa perdere un pomeriggio, ma semplicemente un uomo. Idem per le lezioni di chimica, quando non capisci niente e maledici gli scienziati: non potevate farvi meno domande? Però se penso che quelle domande sono le domande di uno che, prima di essere uno scienziato che devo studiare, è un uomo, anche la chimica diventa un’occasione. Quando ho capito che dietro ogni cosa ci sono degli uomini con le mie stesse paure, con i miei stessi dubbi ma soprattutto le mie stesse domande, tutto è cambiato».
Gli insegnanti conoscono gli alti e i bassi, i tormenti e le scoperte di questi cuori vivi? Saremo all’altezza di questi cuori? O domani mattina torneremo a deluderli? Proposta a tutti gli insegnanti: e se fossero degli studenti a tenere qualcuna delle 125 ore della formazione obbligatoria? Non ovviamente i secchioni clonati dai bravi insegnanti, ma chi ha il coraggio di dire pubblicamente quello che scrive su WhatsApp e confessa ai propri amici. Ce l’abbiamo la voglia di imparare da loro?