Da oggi al 27 novembre 2012 la Biennale d’arte Internazionale verrà visitata, ma riusciamo a immaginare che siano alcune opere, alcuni artisti, i loro legami non calcolati o addomesticati dalla comunicazione a costituire il flusso e le domande più interessanti verso l’arte di oggi, non quelli anzitutto degli esperti, mossi dal non-si-può-non-andare; per cogliere cosa muove nell’intimo (volenti o nolenti, come dicevamo) questi artisti che in qualche modo ci rappresentano. Dunque un consiglio: attaccate bottone con chi incontrate – o con voi stessi -, provate a giudicare insieme a loro.
Andiamo al Padiglione Italia, luogo che va a rappresentare il Paese della Biennale e da sempre ha un suo spazio ampio e al di fuori dei padiglioni storici degli altri Paesi.
Non oltrepassate però il Padiglione della Polonia di Yael Bartana …and Europe will be stunned, interessante. Ruota attorno alle attività del Jewish Renaissance Movement, un gruppo politico che chiede il ritorno nella loro terra dei loro antenati. È dedicato a un tema: cosa significa l’unità di una nazione, la convivenza tra popoli diversi? Il sogno di un posto per tutti? Certo individua un problema conosciuto, ma è interessante per come si sviluppa non istruito dalla dittatura dei media. Ci crede. Rivela una domanda che molti hanno su se stessi, sul proprio passato e futuro e così ce la trasmette in modo coinvolgente.
Buona la partenza, è un’artista israeliana a creare l’opera per la Polonia, portandovi la forza del sogno di una nazione – come l’Israele moderno – sapendo nel contempo ascoltare l’ideale polacco che segna l’anelito unitario della sua storia, mischiando, come in un cortocircuito, la sofferenza e la persecuzione dell’Europa sia verso gli ebrei che verso i polacchi (4 milioni di morti nella seconda guerra mondiale). Un rilancio di un ideale e anche un punto interrogativo sugli errori di oggi di una nuova chiamata a una fratellanza omologante o forzata, senza stupore per la libertà.
Un’opera-film dove però la parola degli attori non prevale sulle immagini, ma ha un timbro poetico, epico e a tratti volutamente retorico (come il tema) e delle immagini sono surreali, ma non di quel surrealismo che disprezza la realtà, bensì la aumenta, la penetra, mettendo situazioni paradossali o accentuate nella realtà normale, di tutti i giorni.
Concludiamo dunque i brevi appunti sulla Biennale con L’Italia, una delle patrie dell’arte. Ci troviamo di fronte, lo diciamo subito, anche qui ad una rappresentazione intellettuale e di un concetto, con la differenza che questo grande insieme è composto da 250 opere, comprensibili non una ad una ma solo “insieme”, proprio come la rappresentazione di un’idea.
Qual è questa idea? L’arte non è Cosa Nostra, slogan coniato dall’amico e curatore Vittorio Sgarbi, a dire che c’è un mondo, forse più vasto di quanto si creda, che non è quello dei critici che creano il mercato o dei padroni del vapore che pretendono di rappresentare quello dominante e di avere il dominio rappresentativo dell’arte nel mondo, consentito dal suo essere ormai piccolo perché globale (e l’arte visibile in web)… Se l’idea dice il vero, rimane però un’idea, quell’odiato concettualismo e “associazione di idee” che rispunta e pur si evidenzia non essere il metodo profondo e vero dell’arte.
Le opere sono prevalentemente pitture, quadri, collocati fino a tre, quattro file di altezza, ad angolo, appoggiati a tutto tondo, piccoli, grandi, dissimili. Una singolarità inavvicinabile per quello che è in se stessa e forse desiderava essere, raggrumata in un insieme che diviene astratto, utilizzata per dire un nuovo concetto: ecco, qui c’è quello che “Non è Cosa vostra”.
Parliamo di metodo non delle singole opere, alcune belle, altre brutte, ma come è diversa, lenta e faticosa la strada che porta a una vera compagnia visiva, a poterti conoscere caro artista o opera che nasci da un perché – piccolo o grande, finto o reale fa lo stesso – ma in cui ti incontro! Ma siamo sicuri che la maggioranza dei detrattori di Sgarbi non hanno questo punto di partenza nel loro giudizio, e questo ci permette di forzare il Vittorio d’Italia a conoscere e praticare il metodo del fiume carsico, che appare quando ha già quasi vissuto.
Nove clandestini delle Accademie contro le Accademie, più otto artisti del Museo della mafia di Vittorio Sgarbi – una mostra sulla mafia, quella vera, dagli anni 60 ad oggi (dentro la mostra) ma uscito dalla quale sei senza giudizio – per un totale di 275 artisti.
Mi colpisce che non pochi di essi che conosco e che hanno accettato e suggerito di essere chiamati in questo recinto da rispettivi 250 intellettuali, politici, burocrati di Stato, giornalisti d’Italia, scrittori (quindi troviamo qui rappresentate 250 più 250 persone a menzionare l’italianità) citino spesso Giovanni Testori come punto di memoria, riferimento rimasto per una diversità e sostanza.
A parte che di riferimenti ve ne sono anche altri e la riduzione a maître à penser è sempre possibile se non si ama la varietà e libertà dei segni, ma come era diverso il suo modo di procedere, i suoi richiami. Come appunto è più difficile ma incontrabile il lavoro attraverso esempi scelti e con resa ragione, col motivo di una scelta, il lento cammino del coltivare i giovani nello sviluppo di una carriera artistica fatta di discontinuità e non schiava della comunicazione, che tende sempre di più a far assomigliare gli artisti – e l’arte – a quelle altre categorie di uomini noti che devono sempre mostrarsi sorridenti, aperti, pronti, consapevoli, al passo. Avete in mente i pr, i grand commis, gli scrittori, i giornalisti ai ricevimenti e ai cocktails? Chissà se è una coincidenza questo spritz di intellettuali che propongono artisti e viceversa…
Singole opere erano anche belle ma perché di riporto (le conoscevamo già), altre si riuscivano a vedere, le altre ancora… pazienza.
Ci chiediamo che cosa ne è del Dono, della vocazione umana struggente alla bellezza, la domanda sul proprio limite e sterilità, l’ironia cercata e beffarda, del sacrificio e della conversione del proprio modo a quello che nasce dal fondo dell’esperienza – speriamo che gli artisti ancora abbiano questi dolori umanissimi sotto la scorza del mestiere.
Viene in mente un pensiero di Emanuel Mounier : “È dalla terra, dalla solidità, che deriva necessariamente un parto pieno di gioia e il sentimento paziente di un’opera che cresce, di tappe che si susseguono, aspettate con calma, con sicurezza. Occorre soffrire perché la verità non si cristallizzi in dottrina, ma nasca dalla carne”.
Ripenso sempre in questi casi anche ad un’indicativa frase di padre Danielou che ho sentito da don Luigi Giussani: “Il santo e l’artista entrambi vogliono cambiare il mondo, ma il santo sa che per farlo occorre il sacrificio”.
Tanti hanno scritto che il Padiglione di Sgarbi è disordinato, inconcludente, oppure che l’idea è bella ma si poteva sviluppare meglio. Noi aggiungiamo che il metodo utilizzato è figlio dell’altro, quello che si vuol contestare, che la dialettica, pur giusta e necessaria e in questo caso anche interessante nella sua provocazione, ci impedisce il fatto più decisivo, vedere, incontrare: ci impedisce l’esperienza. L’arte muore per sola rappresentazione, o nell’opera in se stessa o nelle opere insieme rappresentate.
Un ultimo accenno al fatto che non è la carne il vero punto rispetto all’astrazione (non delle forme ma di genesi del pensiero) ma se in essa riconosco e accetto il grido che contiene, l’esistenza e non la morte. Perché anche della “carne” si può avere un’idea e basta.