Un nuovo importante passo in avanti nella lotta all’Aids. Ricercatori americani hanno annunciato il primo caso di guarigione al mondo di una bambina nata con l’Hiv, trasmesso da madre sieropositiva: la piccola del Mississipi è stata sottoposta a una “cura funzionale”, un mix di tre farmaci antiretrovirali, prima che fossero passate 30 ore dalla nascita. Adesso, giunta all’età di due anni e mezzo, della malattia sembra non esserci più traccia. Se confermato, il risultato potrebbe permettere di curare migliaia di bambini che, soprattutto in Africa, nascono ogni anno sieropositivi. “Il nostro prossimo passo – ha detto la dottoressa Deborah Persaud del John Hopkins Children’s Center – sarà scoprire se è stata una risposta altamente insolita a una terapia precoce con antiretrovirali oppure qualcosa che si può ripetere con i neonati al alto rischio”. Abbiamo chiesto un commento a Fabrizio Pregliasco, medico infettivologo.
Come giudica quanto avvenuto?
In realtà, la cura in sé è già conosciuta. Prima, però, era necessario attendere circa un anno per evitare tutte le conseguenze tossiche dei primi farmaci antivirali, piuttosto invasivi nel neonato.
Qual è quindi la vera novità?
Oggi sono stati messi a punto farmaci molto meno aggressivi che quindi permettono di iniziare la cura fin da subito, anche entro le prime 30 ore di vita del bambino. Questo è molto importante perché, come è noto non solo nel caso dell’Hiv ma anche in altre patologie, la somministrazione risulta essere ancora più efficace se immediata. Se invece avviene dopo 6 mesi o un anno, gli effetti sono decisamente meno notevoli perché il virus si è già inserito stabilmente all’interno delle cellule.
Quanto scoperto potrà aprire a un’applicazione anche agli adulti?
L’applicazione della cura potrebbe aprirsi a tutti, anche se, come dicevo, prima si attiva la profilassi e prima si riesce ovviamente a combattere la malattia. Teoricamente, però, potrebbero beneficiarne individui di qualsiasi età.
Quanto erano invasivi prima gli antivirali?
Parliamo di medicinali chemioterapici che hanno degli effetti collaterali notevoli. Penetrando nell’organismo il loro compito è quello di uccidere delle cellule e, inevitabilmente, uccidono anche quelle buone.
I ricercatori americani restano comunque prudenti e parlano di una guarigione “funzionale”. Di che si tratta?
Significa che non si sa con certezza se il virus è stato eliminato del tutto. I retrovirus si inseriscono all’interno del Dna delle cellule, quindi qualche traccia potrebbe ancora rimanere nascosta. Quando si utilizza il termine “funzionale”, i parametri risultano essere non alterati ma la guarigione è solamente un “sintomo”, non ancora l’effettivo azzeramento della malattia.
Si tratta comunque di un notevole passo in avanti, non crede?
Certo, è un grande passo in avanti soprattutto verso quello che è il pattern di rischio che esiste non tanto nel nostro continente, quanto per esempio in Africa. In Italia e in Europa, infatti, una situazione del genere era presente quando erano i tossicodipendenti a trasmettere la malattia, mentre oggi il rischio principale è rappresentato dagli eterosessuali adulti. Il rischio di trasmissione perinatale, invece, è ancora presente soprattutto in Africa.
Quale crede sarà il prossimo passo?
Quello di riuscire ad avere farmaci antivirali che possano debellare la malattia a infezione sieropositiva conclamata. Al momento, però, non esiste una terapia antivirale realmente efficace, ma solamente una terapia antiretrovirale che allunga e migliora la qualità della vita del malato.
(Claudio Perlini)