Celebrare il Fascination of Plants Day, come si fa in questa settimana in tutto il mondo, vuol dire offrire al grande pubblico occasioni per ammirare l’affascinante ricchezza della natura, per conoscere i grandi avanzamenti scientifici nella conoscenza dei vegetali e per rendersi conto di quanto sia importante la ricerca in questo settore. Le piante producono cibo, legno, carburante e materie prime di ogni sorta; producono i tessuti per i nostri vestiti, i principi attivi di farmaci e cosmetici, i fiori che abbelliscono le case. E producono, ogni giorno, l’ossigeno che respiriamo.
Giustamente gli organizzatori – l’iniziativa promosso sotto l’egida dell’European Plant Science Organisation (EPSO) è alla sua terza edizione – sottolineano che “la vita sulla Terra dipende dalle piante; che il futuro dell’agricoltura e dell’economia dipende dalle nuove idee degli scienziati che fanno ricerca sulle piante”. Proporre il fascino delle piante oggi vuol dire anche inserire questo tema nel quadro di quella che può essere chiamata la bioglobalizzazione. Una situazione che non sorprende e che è uno dei tanti risvolti del più ampio fenomeno della globalizzazione che siamo ormai abituati a considerare un dato di fatto. Sono sempre più numerose le piante che attraversano, grazie soprattutto all’azione volontaria o involontaria dell’uomo, i loro confini naturali per stabilirsi in nuove aree.
La somma totale di tutti i trasferimenti di organismi viventi è la bioglobalizzazione; che può essere anche considerata come la fase attuale di un processo storico che ha interessato il mondo vegetale fin da tempi più lontani. Di questo parlerà domani sera a Milano, nell’ambito del PlantDay organizzato dall’Orto Botanico di Brera e dall’Università degli Studi di Milano, la professoressa Agnese Visconti, storica e studiosa di questi problemi; ne parlerà a Brera nella conferenza “Alberi: i trasferimenti delle piante alimentari dal settecento a oggi: storia, situazioni e prospettive”, della quale ha anticipato a Ilsussidiario.net i principali contenuti. «Tralasciando tutte le trasmigrazioni che hanno avuto luogo dalle epoche remote fino al Medioevo, è con la scoperta dell’America che si apre improvvisamente una nuova grande ricchezza e varietà vegetale che determina profondi mutamenti nell’economia europea e mondiale». Visconti ricorda come nel Cinquecento e nel Seicento parecchie piante furono portate dagli europei in America con lo scopo di trasformare il più possibile il Nuovo mondo in una copia del Vecchio. Furono trasferiti fin da subito: grano, piselli, meloni, cipolle, insalata, viti, olivi e semi di frutta. Ognuna di queste piante trovò la zona adatta, e tutte insieme si estesero dagli umidi bassipiani delle coste atlantiche fino agli altipiani asciutti andini. Tragitto inverso fu invece quello compiuto dal mais, che venne portato in Spagna da Cristoforo Colombo già al ritorno, pare, dal suo primo viaggio; anche se non si diffuse subito in Europa. Una considerazione a parte merita lo zucchero di canna.
Originario dell’India, esso fu trasferito nei Caraibi e sulla costa nord del Brasile. Allo zucchero e alla sua coltivazione oltreoceano si collega, come è noto, la tratta degli schiavi dalle coste occidentali dell’Africa alle Antille e al Brasile. «Anche la storia del mais si lega a quella della tratta degli schiavi. Esso fu infatti introdotto nel Seicento in Africa occidentale dai portoghesi con lo scopo di poter disporre a basso prezzo del cibo necessario al mantenimento degli schiavi durante la traversata oceanica. Il mais era il cereale più adatto a essere trasferito in Africa: aveva una resa alta ed era più facile da coltivare del frumento (che richiede l’aratro) e del riso (che richiede un complesso sistema di irrigazione). Così mentre gli schiavi venivano trasferiti dall’Africa all’America per coltivare lo zucchero originario dell’Asia, il mais originario dell’America veniva trasferito in Africa per consentire il commercio dello zucchero in Europa. Mais, zucchero e schiavi costituirono il perno del commercio mondiale fino al Settecento».
A un certo punto nel trasferimento delle piante si introduce la scienza. Si prospetta un nuovo ruolo per il botanico, che si stacca dalla sua tradizionale posizione strettamente legata alla medicina e viene trascinato verso la sfera dell’economia e del potere politico fino al punto da assumere una funzione molto lontana da quella di partenza. Le due nazioni in cui l’intesa tra botanica e potere politico ed economico si concretizzò in maniera più palese e nello stesso tempo più efficace furono la Francia e la Gran Bretagna. «All’inizio del Settecento si compiono, per iniziativa congiunta del sapere scientifico e del potere politico, una serie di esperimenti sul caffè, originario dell’Etiopia. Tali esperimenti portarono come risultato all’invio, avvenuto nel 1723, nelle colonie caraibiche della Martinica e della Guadalupa di alcune decine di piantine dalle quali discenderà poi buona parte dei milioni di alberi che dai territori francesi d’oltreoceano, nel corso di tutto il periodo che va dalla metà del Settecento alla metà dell’Ottocento, riforniranno l’Europa illuminata della sua bevanda più rappresentativa».
Il contributo della scienza nel trasferimento delle piante vede ulteriori esperimenti nei secoli seguenti. Da quelli per trasferire le spezie, in particolare chiodi di garofano e noce moscata, dall’estremo oriente alle isole mascarene; all’introduzione dell’albero del pane da Tahiti alle colonie inglesi d’America con lo scopo di utilizzarlo come alimento base per gli schiavi neri trasferiti dall’Africa per lavorare nelle piantagioni di zucchero delle Antille britanniche. Un progetto che merita di essere ricordato è quello della trasformazione dei Giardini Reali di Kew, vicino a Londra, da giardini di piacere a centro di ricerca scientifico-botanica. Gli esperimenti compiuti a Kew furono numerosissimi e le conoscenze scientifiche acquisite furono all’origine, tra l’altro, del trasferimento del tè dalla Cina all’India.
I trasferimenti delle piante sono stati anche all’origine di terribili catastrofi ambientali e alimentari: come la carestia della patata in Irlanda, a seguito dell’attacco della peronospera nel 1845; o il dramma della pellagra, legato al consumo di mais non secondo le modalità adeguate che le società precolombiane ben conoscevano ma che non erano state “importate” in Europa. Verso la fine dell’Ottocento si apre una nuova fase legata all’inizio della sperimentazione delle tecniche di incrocio, «che consentirono di selezionare, attraverso l’accoppiamento di individui recanti determinati caratteri ritenuti utili, nuovi individui all’interno dei quali tali caratteri si assommavano secondo gli obiettivi ricercati. Senza le tecniche di incrocio la coltura del mais non si sarebbe sviluppata in maniera così estesa negli Stati Uniti».
Il tema degli incroci ci porta ai giorni nostri: «un’accelerazione e una estensione nella selezione dei caratteri vantaggiosi sono state rese possibili negli ultimi decenni con lo sviluppo della biologia molecolare e delle biotecnologie in genere. Infatti, mentre gli incroci possono essere ottenuti soltanto all’interno della stessa specie e dopo lunghi e ripetuti tentativi che si protraggono per anni e anni, con le tecniche molecolari è diventato possibile trasferire in tempi brevi materiale genetico addirittura da una specie all’altra. La biologia molecolare rende virtualmente possibile il trasferimento di piante in ogni zona della Terra: è sufficiente, infatti, corredare una data specie vegetale, dei geni prelevati da un’altra specie vegetale o anche animale, geni in grado di rendere la prima specie resistente al gelo, o alla siccità, o alla mancanza di luce, o a un tipo di suolo piuttosto che a un altro e così via».
La biologia molecolare apre grandi prospettive e però nello stesso tempo costituisce uno strumento che richiede molta attenzione e prudenza: «Prudenza significa soprattutto, a mio avviso, che queste nuove scoperte, che sono in mano a pochi, non diventino uno strumento che resta in mano ai pochi e non è stato scelto dai molti. È quindi necessaria e opportuna una informazione approfondita e diffusa in modo da poter scegliere. Il rischio ci sarà sempre ma un conto è correrlo in nome di tutti e per un miglioramento per tutti, altro è correrlo per il profitto di pochi». Quanto all’affermarsi della bioglobalizzazione, si può registrare anche in Italia il fenomeno della crescente importazione di piante esotiche che vengono a trovarsi in habibat diversi dal loro proprio e possono diventare infestanti e nocive. «Anche qui, occorrerebbe che l’importazione di queste piante fosse più controllata. Voglio però far notare che, se non si tratta proprio di piante gravemente infestanti, si può cercare di convivere.
Fermare il processo mi sembra impensabile; mentre, come è accaduto in passato, si possono trovare, creativamente, forme di adattamento che fanno diventare utili piante che a prima vista non lo sarebbero. Più che la pianta in sé, mi pare che vada ripensato il rapporto con l’uomo e con le forme sociali nelle quali gli elementi importati possano trovare una loro collocazione. Spesso succede che i nuovi vegetali vengano considerati alieni, e quindi da eliminare, solo perché non si sa come gestirli; è chiaro che sta all’uomo far diventare utile una pianta».