Da circa quattrocento anni l’uomo ha imparato a osservare gli oggetti di piccole dimensioni utilizzando il microscopio; e nei secoli lo strumento è stato perfezionato fino ad arrivare a quelli attuali che permettono di spingere lo sguardo fino ai livelli atomici, cioè a un decimiliardesimo di metro. Ma il panorama che sta per rivelarsi ai fisici del Cern di Ginevra è ben più in là di questi confini e le scoperte che gli scienziati si aspettano dagli esperimenti in programma sono di quelle destinate a lasciare un segno profondo nella storia della conoscenza umana della natura.
Fra una settimana infatti inizierà la fase operativa del più grande acceleratore di particelle mai realizzato: si chiama LHC (Large Hadron Collider, ovvero Grande Collisore Adronico) e accelererà gruppi di protoni (le particelle pesanti presenti nel nucleo di tutti gli atomi e classificate nella categoria degli adroni) fino a velocità ed energie altissime per poi farli collidere 40 milioni di volte al secondo. Nulla a che vedere quindi, se non come analogia, con i microscopi che ci sono più familiari; tutta un’altra forma, dimensioni imparagonabili e soprattutto una diversa concezione delle apparecchiature. Non si tratta soltanto di cercare oggetti da ingrandire, quanto di crearne di nuovi, inesistenti nelle normali condizioni della materia: particelle con vita media di qualche frazione di secondo, con dimensioni dell’ordine dei milionesimi di miliardesimo di millimetro, anche se queste misure non hanno molto senso ed è inutile tentare di immaginare una qualsiasi raffigurazione geometrica di tali oggetti. I fisici preferiscono dare una valutazione quantitativa di questo universo subatomico in termini di energie (che, ricordiamo, sono equivalenti alle masse tramite la celebre relazione di Einstein); peccato che utilizzino una misura dell’energia diversa da quella che troviamo sui normali contatori domestici: parlano di elettronvolt (eV), che esprime l’energia acquistata da un elettrone accelerato dalla tensione di un volt. Le energie in gioco in LHC sono dell’ordine dei Teraelettronvolt (TeV), cioè migliaia di miliardi di eV: al momento dell’impatto, ogni protone avrà un’energia di 7 TeV e trattandosi di urti frontali, ogni collisione varrà 14 TeV. Sono energie che si possono raggiungere portando le particelle a velocità pari al 99,9999991% di quella della luce; e ciò è possibile grazie all’impiego di potenti magneti superconduttori che operano a temperature di appena due gradi sopra lo zero assoluto.
Le collisioni saranno una miniera di informazioni sulle quali gli scienziati potranno lavorare per anni: ogni urto fornirà circa 1,5 Megabyte e qualcuno si è divertito a calcolare che i primi sei mesi di esperimenti riempirebbero di dati una pila di CD alta fino alla Luna.
Tutto ciò sta per iniziare nei
Ma per vedere cosa? Il principale ricercato è il bosone di Higgs, la particella che potrebbe rivelare la natura della massa; ma nel mirino dei 4.000 scienziati che partecipano all’avventura di LHC (mille sono italiani!) c’è anche la conferma del cosiddetto modello standard, che vede la materia strutturata in quark, elettroni e neutrini; e c’è la speranza di risolvere l’enigma della materia oscura che pervade l’universo.
Questa avventura parte quindi con entusiasmo e tra grandi aspettative. E non manca qualche guastafeste che tenta di seminare il panico evocando lo spettro di un possibile buco nero che si creerebbe durante le collisioni con conseguenze catastrofiche. Sono ipotesi speculative collegate con alcuni sviluppi teorici della fisica quantistica e della relatività generale. Ma al Cern non hanno voluto ignorare neppure queste voci: dal 2003 si sono condotte ricerche in tal senso e recentemente l’LHC Safety Assessment Group ha dichiarato inattendibile la produzione di microscopici buchi neri stabili; e anche ammettendone la possibilità, li ha descritti come oggetti destinati a “evaporare” rapidamente e comunque a rivelarsi innocui.
(m.g.)