«Dov’è tuo fratello Abele?», chiese il Signore a Caino. «Non lo so», egli si affrettò a controbattere, «sono io forse il custode di mio fratello?». Invece, quest’ultimo lo sapeva bene. Il figlio maggiore di Adamo ed Eva aveva ucciso il fratello più piccolo. E, in questo modo, lui, il primo uomo nato da donna nella storia dell’umanità, segnava l’irrompere nelle dinamiche politiche, economiche e sociali della violenza. L’eco delle parole con cui Caino risponde in maniera lapidaria alla preoccupata domanda rivoltagli da Dio sulla sorte del fratello Abele dal libro della Genesi si è propagata fino al Novecento.
Nel corso dei secoli, la violenza e il suo rifiuto hanno intrecciato le loro traiettorie incessantemente, determinando il sorgere di una continua riflessione da parte degli intellettuali, delle autorità civili e religiose, nonché della gente comune. All’interno della civiltà occidentale, l’estrema durezza e pervasività dei comportamenti violenti, tipica del mondo classico, fu temperata dall’avvento del cristianesimo, che riuscì ad affermare nella quotidianità la testimonianza di una presenza originale in grado di scardinare ogni sistema politico o sociale. Nel riferimento a un’ideale estremamente concreto, che si incarnava nella costruzione di norme e istituzioni capaci di offrire una soluzione di compromesso e non violenta alle lotte interne e alle guerre tra unità politiche organizzate, il cristianesimo era riuscito a “normalizzare” l’orizzonte della vita sociale delle persone.
Con l’avvento dell’età moderna, caratterizzata da un rifiuto – più o meno cosciente – della dimensione trascendente dell’uomo, che raggiunse il suo culmine con la Pace di Vestfalia, la quale riconobbe il definitivo passaggio a un sistema internazionale “secolarizzato”, sorto sulle macerie della Respublica Christiana, la violenza venne apparentemente ancor di più “addomesticata”, perché non più soggetta alle giustificazioni di carattere religioso, ma di fatto “sdoganata”. L’incredibile ascesa del pensiero scientifico a partire dal XVI secolo, spinsero molti a credere che il dilemma della violenza fosse ormai superato. Con l’affermazione della scienza e della tecnica, il problema del potere – ossia del controllo dell’uomo sull’uomo – sarebbe stato accantonato. Tutte le principali ideologie politiche della modernità – dall’utilitarismo all’illuminismo, dal liberalismo al marxismo – erano convinte (e, molto probabilmente, i loro ultimi epigoni lo rimangono tuttora) che l’uomo non avrà più bisogno della violenza quando avrà raggiunto il dominio sulla natura fisica o sociale.
In apertura del Novecento, gli ultimi più o meno disincantati cantori del razionalismo e della Belle Époque avevano creduto che la violenza fosse un ricordo del passato. L’aumento dei rapporti economico-commerciali e l’edificazione di istituzioni internazionali stavano a indicare di una nuova fase della storia dell’umanità. La Prima guerra mondiale interruppe questo felice sogno a occhi aperti. Tuttavia, l’illusione dell’idealismo liberale – quello capeggiato, per esempio, da Woodrow Wilson – non evaporò.
Pur a fronte dell’utilizzo del conflitto come «strumento di rigenerazione nazionale e personale», ossia di quella che George L. Mosse definisce «brutalizzazione della politica», gran parte del ceto intellettuale e politico occidentale rimase convinto che la guerra e la violenza potessero essere superate ponendo fine all’ignoranza umana. La ragione (in questo caso, ridotta) sarebbe stata sufficiente a cambiare il cuore e la mente dell’uomo. Le penetranti osservazioni di realisti come Reinhold Niebuhr, Edward H. Carr e Hans J. Morgenthau, non vennero prese in debita considerazione, almeno fino al termine della Seconda guerra mondiale.
Gli orrori successivi a tale conflitto resero coscienti gli uomini della pervasività della violenza all’interno della politica. In un clima reso paradossalmente più sicuro dall’incubo dell’annientamento termonucleare, apparve più evidente come una «combinazione di violenza, vita e creatività», onda lunga del nichilismo nietzschiano, fosse presente – osservava Hannah Arendt alla fine degli anni Sessanta – «nell’inquieta situazione mentale della generazione odierna». Pur a fronte dei (sempre parziali) successi ottenuti attraverso la non-violenza dall’azione di grandi personalità sociali e politiche come Mohandas Gandhi e Martin Luther King, il problema della violenza persiste ancora oggi. Al di là delle posizioni espresse dai sostenitori della “pace democratica”, i conflitti a livello interno ed esterno, in particolare dopo la scomposizione del sistema internazionale nel 1989 e la sua attuale riarticolazione su base sempre più multilaterale, sono andati aumentando, se non per intensità, almeno per frequenza. E, realisticamente, non vedranno il loro termine finché l’ultimo uomo poggerà i suoi piedi sulla terra.
Il ricorso alla violenza, come testimoniano anche le tristi vicende di cronaca nera che affollano i quotidiani ogni giorno, è connaturato alla natura umana. Anche se non necessaria o determinata, la possibilità di esercitare violenza contro un altro essere umano risiede nel mistero del cuore di ogni persona. Nella scelta libera di fare il male o aderire al bene. È soltanto nella coscienza di una tale condizione drammatica, e non nella sua consapevole o inconsapevole rimozione operata dal razionalismo scientista, che sarà possibile trovare delle forme di compromesso politico interno, di equilibrio di potenza internazionale, o di semplice umanità verso il prossimo, in grado di dare una risposta differente da quella offerta da Caino. Proprio perché, in fin dei conti, siamo proprio noi i custodi dei nostri fratelli.