È dalla pubblicazione del Decreto legge del 25 giugno 2008, n. 112, art. 64, convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133, che si sta snodando il lungo itinerario dei “risparmi” di 7,8 mld. nel sistema scolastico. È anche il troppo travaglio del ministro Gelmini. Benché razionalizzazioni e risparmi fossero previsti da giugno, ancora non è dato di vedere i Regolamenti attuativi, che devono indicarne la quantità e le conseguenze sulla ridefinizione degli ordinamenti, sulla riorganizzazione della rete scolastica, sul più razionale utilizzo delle risorse umane. Intanto i tempi dell’attesa delle famiglie, degli insegnanti e delle scuole, chiamate alle iscrizioni per l’anno scolastico 2009-10, sono ormai scaduti. Resta solo, in zona Cesarini, l’ipotesi di spostare a febbraio le iscrizioni per il nuovo anno. È già accaduto nel 2003 con la Moratti.
Tuttavia, dietro i ritardi e i rinvii tecnico-burocratici si cela, non da oggi, la questione dei rapporti dei governi di centro-destra con l’universo scolastico e, pertanto, quella della possibilità delle riforme. La scuola è da molti decenni “di” centro-sinistra. La causa viene da lontano: il sistema scolastico è un’articolazione dello Stato amministrativo, sovraccarica di cultura e di ideologia. Bene sintetizzò negli anni ’60 il filosofo Louis Althusser: appareil idéologique d’Etat. A questo lato si è dedicato con grande successo il PCI fin dal dopoguerra, sulla scia della lezione gramsciana. Il ’68 ha fatto il resto: gli insegnanti sono circa 1 milione di intellettuali “di massa”, incardinati in una funzione statale decisiva. Sono di sinistra, in grande maggioranza, perché il centro-sinistra difende il ruolo e la struttura dello Stato amministrativo, e perché la sinistra politica e sindacale fornisce la coscienza ideologica. Per quest’ultimo aspetto, non si tratta di un fenomeno solo italiano: gli insegnanti inglesi, francesi, tedeschi, scandinavi, spagnoli ecc… sono in gran parte di sinistra. Quelli americani sono democrat, non repubblicani. Donde la difficoltà dei governi a introdurre le necessarie innovazioni nei sistemi educativi: perché, dovendo rispondere a bisogni delle famiglie e dei ragazzi, devono mettere in discussione l’innervamento della professione docente nello Stato amministrativo centralistico. Nel caso dei governi di centro-destra le difficoltà sono ancora maggiori, sia a causa dell’ideologizzazione a sinistra, sia a causa della rappresentanza politica che la sinistra offre alle resistenze conservatrici.
Ma c’è una caratteristica tutta italiana tanto dei governi di centro-sinistra quanto di quelli di centro-destra: ogni volta che incontrano tenaci resistenze, i ministri dell’istruzione ripiegano la bandiera delle riforme, ricorrendo al metodo del rinvio a tempi migliori, ad altro ministro o ad altro governo, spesso di segno opposto. E’ la storia infinita dei governi della Prima repubblica e della Seconda. Fatte le leggi di riforma, o non arrivano i Decreti esecutivi o non arrivano i Regolamenti attuativi. Si progettano ottime riforme, ma i tempi sono scanditi “politicamente” in modo che la loro realizzazione cada sulla spalle del futuro governo o del futuro ministro. Eppure si profila in questa fine 2008 una condizione eccezionale in cui i Regolamenti, che dovrebbero attuare in tre anni la legge Tremonti e insieme ripescare i Decreti Moratti rimasti sulla carta, potrebbero finalmente arrivare.
Perché la politica italiana resta immobile sulla scuola? Primo, perché noncurante per ignoranza e per calcolo cinico dell’emergenza educativa del Paese, che l’esperienza quotidiana e gli studi nazionali e internazionali documentano. Secondo, perché è ossessionata dal consenso immediato, da raccogliere qui e ora: la politica e il governare come curvatura populistica sul presente. A queste cause i ministri dell’Istruzione di centro-destra ne aggiungono una peculiare: l’illusione ricorrente di poter sfuggire alle Erinni del sindacato e di conquistare, edulcorando e rinviando, il consenso immediato degli insegnanti. Che stanno al 90% con il centro-sinistra! Eppure una discontinuità liberale nel metodo è possibile: contenuti innovativi, scelte decifrabili, tempi certi per le riforme. Su questo c’è, almeno fino ad ora, il consenso del Paese. Gli insegnanti capiranno – è già accaduto in altri Paesi – che le riforme convengono anche a loro perché aprono la strada a un riconoscimento di ruolo culturale e civile e a una nuova modalità di retribuzione e di carriera professionale.