Esattamente mezzo secolo fa, il 4 gennaio del 1960, un incidente stradale portava via, a soli quarantasei anni, Albert Camus. Ma queste non sono note commemorative. La sua figura non si confonde con le altre. Per capire la sua diversità, la sua bellezza solitaria, sarebbe sufficiente questa frasetta datata 23 marzo 1959, che ho scovato nei suoi diari: “La carne, la povera carne, miserabile, sporca, decaduta, umiliata. La carne sacra”.
La cultura non ha ancora digerito bene Albert Camus. Come Pavese, come Pasolini, come Testori, Camus appartiene a una storia che non ha storia, che non ha narratori autorizzati. La linea maestra della letteratura del Novecento lo esclude, senza dubbio.
Di fronte a lui siamo ancora costretti a prendere posizione: o pro o contro. Proprio come allora: ed era una cosa di cui lo stesso Camus era il primo a stupirsi, quando si accorgeva che non c’era intervento pubblico, radiofonico o televisivo, che non suscitasse le solite polemiche.
La sua epoca era la stessa di Cesare Pavese, con il quale lo accomunano molte cose, prima fra tutte un particolare malessere, un sentimento di esilio, di estraneità a un mondo (e soprattutto il mondo della cultura) che sembrava essere uscito dall’orrore della guerra con un pacco di parole d’ordine già confezionate (da chi?) da usare contro tutte le oppressioni, tutte le limitazioni della libertà di espressione, tutti i soprusi, tutti i totalitarismi.
Intenzioni splendide, a patto però che si potessero sostenere in qualunque occasione, a patto di non dover reprimere continuamente il sospetto che il più grande di tutti i totalitarismi potesse nascondersi dietro quegli ideali.
Impegno politico! Aux armes, citoyens! Up patriots! L’intellettuale, da Sartre in avanti, non avrebbe più dovuto temere altro che la propria torre d’avorio (che è, per inciso, un attributo di Maria), e sarebbe stato suo dovere, per saecula saeculorum, quello di non tacere la propria indignazione dinanzi a tutte le ingiustizie.
In molti ci hanno messo trent’anni a capire l’inganno. Non sono bastati Budapest e Praga, Pol Pot e la guerra in Afghanistan. Ma Camus lo capì immediatamente. Il suo rifiuto di schierarsi con le altre anime belle della cultura francese contro la colonia algerina a favore degli insorti (Guerra d’Algeria, 1954-1962) gli valse l’ostracismo e l’isolamento.
Ma quale causa può essere così giusta da mettere un uomo contro sua madre? Camus era nato infatti in Algeria, a Mondovì, e in Algeria si svolgono i suoi due romanzi più celebri: Lo Straniero, uscito nel 1942, e La Peste, che è del 1947. Tra i due capolavori c’è l’esperienza della guerra, durante la quale vide la luce anche il più cupo dei suoi testi teatrali, Il Malinteso (1944).
Ne Lo Straniero – che è il suo romanzo più bello – incontriamo Mersault, un personaggio completamente nuovo nella storia della letteratura: una specie di rinnegato della storia, che vive una breve e terribile vicenda (che si conclude con la sua condanna a morte) senza provare il minimo sentimento, con un’indifferenza tragica rispetto a tutte le proprie vicende.
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Questa condizione di essenziale assurdità della vita umana, cui nessun engagement può corrispondere, può essere superata solo nell’esperienza del dolore estremo. La Peste che dà il titolo al romanzo omonimo è il male – evidente metafora della guerra – che devasta la città di Orano. Nel momento della storia in cui ha sperimentato la propria parte peggiore, l’uomo scopre che è possibile ricominciare: non dall’ideologia, ma da un’operatività semplice, generosa e senza calcoli. È evidente che nessuna azione umanitaria potrà rispondere all’immensità del bisogno umano, ma proprio per questo occorre dare tutto – nella certezza, dice Camus, che un uomo non potrà mai dare tutto.
Questo sentimento di sproporzione, che si traduce in un profondo malessere esistenziale e in una difficoltà di adattamento a tutte le cause comuni – per quanto giuste possano essere – portò Camus a interrogarsi sempre sul momento aurorale dell’esistenza (il rapporto con la madre ne Lo Straniero, la straziante visita alla tomba del padre ne L’ultimo uomo, la commovente telefonata al suo vecchio maestro delle elementari non appena ricevuta la notizia dell’imprevista assegnazione del Nobel, nel 1957), sulla nascita. L’opera di Camus è tutta uno sbirciare attraverso il buco della serratura dell’origine.
Quando penso a lui, la prima immagine che mi balza alla mente è quella del protagonista de La Caduta (1956), Jean-Baptiste Clamence, che in un caffè di Amsterdam, rivolgendosi a un uomo qualunque, racconta la storia centrale della sua vita, quando si trovò a passare, a mezzanotte, a Parigi, su un ponte sulla Senna, “dietro una forma che si sporgeva sul parapetto e sembrava guardare il fiume”. Una ragazza disperata, forse intenzionata a uccidersi. “Ma io, dopo un’esitazione, continuai per la mia strada. (…) Avrò fatto una cinquantina di metri, quando sentii un rumore, che la notte rese enorme nonostante la distanza: un corpo che si abbatteva sull’acqua. Mi fermai di colpo, senza però voltarmi. In quel momento sentii un grido, che si ripeté più volte, scivolando anch’esso lungo il fiume, finché si spense improvvisamente”.
Quale ideologia, si domanda Clamence, quale impegno civile potrà permettermi di compiere la sola azione veramente giusta alla quale aspiro: tornare a quel momento, a quell’unico momento, e anziché proseguire in nome di un falso senso del rispetto rivolgere la parola a quella ragazza, dirle non lo fare, ti voglio bene?
Il desiderio di tornare indietro nel tempo, fino a quel preciso istante, è l’immagine più bella che la letteratura del Novecento, amara e incredula, abbia coniato del nostro bisogno di perdono. Un bisogno che non è scritto nelle ideologie e nei sistemi di pensiero, ma nella nostra povera, miserabile, sporca, decaduta, umiliata, santissima carne.