LIPSIA — Christoph Menke, professore di filosofia a Francoforte sul Meno, è un autore di sinistra che sfida senz’altro a riflettere. Innanzitutto per la sua analisi su ciò che si potrebbe chiamare uno spirito utopico del diritto. Ecco la tesi di fondo del suo libro Kritik der Rechte (“Critica dei diritti”), Suhrkamp, Berlino 2015: “Il soggetto dei diritti borghesi per la sua autorizzazione politica paga il prezzo dello svuotamento di potere della politica”. Insomma viene autorizzato dalla concezione liberale del diritto ad assumere e creare politicamente nuovi diritti, pagando il prezzo di uno svuotamento della capacità rivoluzionaria della politica di cambiare la società in una società più umana. Detto ancora in altri termini: il riconoscimento dei nuovi diritti, come rivendicazione politica, è in verità solamente rivendicazione di un desiderio arbitrario del singolo o di singoli, mentre la politica serve il bene comune. Da cui, risulta una contraddizione tra questo tipo di rivendicazione del desiderio privato di singoli soggetti e la politica come servizio al bene comune nella prospettiva di un cambiamento rivoluzionario della società.
L’autocomprensione liberale del diritto e dei diritti diventa dunque secondo Menke “soggettivismo” (arbitraria imposizione di ciò che si vuole perché lo si vuole) e “positivismo” (priorità dell’oggetto come registrazione dei fatti). Il “mito” di ciò che è, da cui dipenderebbe la concezione liberale del diritto, vede ciò che è come una entità data ed insuperabile. Viene chiamato da Menke “mito” perché non genera una riflessione radicale sull’esistente.
Menke approfondisce nel suo libro il percorso che ha portato alla concezione liberale del diritto, spiegando il rapporto che il diritto ha avuto con il “mondo senza forma” (formlose Welt) e intende la storia del diritto come una storia in cui si è dato, con diverse modalità, per l’appunto forma al mondo senza forma.
C’è infatti uno scarto tra diritto e realtà, che può essere superato assumendo il mondo senza forma nella forma del diritto. Atene (Aristotele) lo ha fatto secondo una impostazione prettamente educativa: il cittadino obbedendo alle leggi viene educato alla virtù, alla giustizia. Roma (Cicerone) non ha più questo intento. Il mondo è a tal punto senza forma, che si deve semplicemente costringere i cittadini ad obbedire. I filosofi possono, con la loro riflessione sul diritto, comprendere che l’obbedienza alla legge porta alla giustizia, questo perché i filosofi hanno un senso per le “forme” che i cittadini normalmente non hanno. Londra (Hobbes) non crede che sia compito del diritto educare il popolo alla giustizia. Bisogna obbedire alle leggi per evitare che un cittadino “lupo” mangi l’altro. Quello che non si può chiedere al “lupo” è che faccia qualcosa contro il suo istinto di sopravvivenza.
In questo “limite” del diritto nella concezione di Hobbes si rivela la forma stessa di questo diritto: la forma umana. Il diritto è creazione dell’uomo, quindi nell’uomo stesso, nel suo istinto di sopravvivenza e nei suoi desideri, trova anche il suo limite. Non si può per diritto chiedere obbedienza a ciò che l’uomo non può fare: danneggiare se stesso. Anche i “diritti dell’uomo” nascono in questo contesto: per quanto i “contenuti” non siano nuovi per la storia spirituale europea, la forma che li determina è quella di una creazione umana.
Da qui sorge il sistema giuridico liberale, che non vuole dare forma al mondo che di essa è privo, ma semplicemente permettere o addirittura sostenere i desideri degli uomini, anche se arbitrari o ingiusti, con la sola condizione che non arrivino a scannarsi a vicenda. Obbedendo alle leggi l’uomo non è più un lupo per l’altro uomo, ma un dio. Dall’homo homini lupus all’homo homini deus: questo è il percorso della comprensione giuridica liberale, oggi dominante.
Se questo è vero, le battaglie “politiche” contro i diritti che alcuni (tanti?) cittadini vogliono — in Germania a Stoccarda e a Berlino, in Italia a Roma, per nominare alcuni esempi recenti — non possono essere, se si vuole avere successo, condotte sulle piazze. Ciò non toglie che esse siano democraticamente legittime, sto parlando ora solo della loro effettività. E per l’appunto effettive non lo sono, perché chiedono che si ritorni alle modalità di comprensione giuridica di Atene o Roma, che ragionavano ancora in termini di “diritti naturali”, comprensibili con il diritto stesso o con la filosofia. Mentre oggi il sistema liberale del diritto è influenzabile solo nella prospettiva dei compromessi.
Il sistema è per l’appunto ricettivo se vengono offerte proposte che nascano da un’intenzione di compromesso nei confronti della proposte in gioco nella società, in modo che si arrivi ad una soluzione che non porti ad uno scontro mortale tra i cittadini. Le altre soluzioni non possono che essere rifiutate a priori come “fondamentaliste” o “fanatiche”. Menke, delle cui tesi sto facendo qui un riassunto ragionato, pensa che questo comprensione del diritto liberale sia “soggettivistica” (arbitraria) e “positivista” (ciò che è dato sono i desideri senza forma del mondo) come ho accennato all’inizio. Il mondo senza forma viene semplicemente regolato, non educato, mentre lui desidererebbe una forma di diritto che umanizzi realmente il mondo, che gli dia una forma umana, ma questo tipo di diritto non esiste ancora, esiste solo la riflessione su di esso.
Come cristiano mi sento in un certo senso vicino a questo tipo di riflessione, ma non credo che essa possa essere condotta solamente o primariamente sotto lo stendardo della “legge”. Come cristiano penso che il mondo senza forma, sotto lo stendardo dell’amore gratuito, è stato davvero penetrato (non solo registrato) in modo definitivo nell’opera redentrice di Cristo.
Nel mistero della discesa all’inferno (oggetto di un altro mio recente articolo), Gesù sente tutta la forza distruttrice del mondo senza forma; prende addirittura su di sé le conseguenze del mondo senza forma. Mentre la concezione liberale del diritto semplicemente regola i diversi desideri del mondo senza forma, Cristo li trasforma dall’interno con una atto di radicale amore gratuito. Il cristiano ha come compito principale quello di testimoniare questo amore gratuito, non di fare battaglie perdutamente nostalgiche che non sono tra l’altro neppure efficaci, perché non tengono minimamente conto delle possibilità giuridiche oggi dominanti, e ancor meno, per ovvie ragioni, di quelle di Atene né di quelle di Roma.
Per chi tenta di comprendere l’essere come dono, nella modalità del “già e non ancora” come risposta allo “spirito dell’utopia” (intendo qui la riflessione di Ernst Bloch sul “non essere ancora dell’essere”, che tanto ha affascinato la generazione del ’68), senza per questo rinunciare ad una riflessione radicale sull’esistenza — all’autoriflessione, come la chiama Menke —, la lettura del suo libro è un vero arricchimento.
La speranza cristiana consiste in un atto di sempre nuova sorpresa al cospetto della donazione dell’essere come amore, che intende il Donatore dell’essere come “interior intimo meo” (Agostino); la speranza nella concezione di Menke consiste in una trasformazione rivoluzionaria dei diritti (da soggettivistici a comunitari) e degli uomini (dell’uomo), capace di cambiare la società e farla diventare più umana.
I punti di contatto, non solo le differenze, sono notevoli. Perché il cristianesimo, come sta mostrando papa Francesco nel mondo, ha davvero in sé una forza “rivoluzionaria”, quella dell’ecclesia semper reformanda. L’unica rivoluzione ancora vivente dopo la delusione delle rivoluzioni del XX secolo, e che ha per nome la “contemporaneità di Cristo” (Julián Carrón) vivente oggi. Questa forza “rivoluzionaria” è libera da ogni ideologia, da ogni ingenuità di me “misura di tutte le cose”, ma anche di noi “misura di tutte le cose” e in questo senso è più forte e più convincente della riflessione su una trasformazione della società basata sulla capacità dell’uomo.
Questa capacità, per chi confida che Cristo cambi il mondo, è e rimane un esito ironico, anche nelle sue dimensioni più acute e sublimi.