Piero Ostellino è giornalista presso il Corriere della Sera, di cui è stato per anni anche il direttore, dal 1970. Lo abbiamo intervistato per conoscere la sua opinione riguardo il titolo e le iniziative del Meeting di Rimini 2008.
Piero Ostellino, nella sua lunga vita professionale di giornalista quando si è sentito protagonista e quando, invece, nessuno?
Non mi sono mai sentito né l’uno né l’altro. Penso, infatti, che il giornalista non debba essere un protagonista, ma un testimone. Che poi in questa veste finisca con l’incidere sulla realtà, contribuendo a modificarla, è un altro paio di maniche. Quei giornalisti che hanno preteso di essere dei protagonisti sono stati, dal punto di vista dell’etica professionale, dei cattivi giornalisti.
In Italia vede più protagonisti o più nessuno?
Il degrado del nostro paese è tale che qualsiasi cittadino di sente fondamentalmente impotente. L’Italia ha ereditato dal fascismo una struttura sociale di tipo corporativo, chiusa, antimeritocratica, sulla quale si sono innestate delle componenti collettivistiche di tipo comunista e di un solidarismo cattolico che assomiglia vagamente al comunismo; tutto ciò ha prodotto un paese profondamente, intimamente illiberale. In esso il cittadino si sente impotente; ha la percezione di essere trattato come un suddito e quindi si sente un nessuno.
Di chi la responsabilità?
Contrariamente a quanto pensa la vulgata popolare dopo aver letto il libro La casta, i colpevoli della situazione che ho descritto non sono gli uomini politici o i burocrati della pubblica amministrazione, ma lo Stato – con la esse maiuscola – invasivo, tassatore, prevaricatore dei diritti dell’individuo. La casta è il puro indotto di uno Stato che occupa qualsiasi spazio. Pensi che è stato presentato in parlamento un progetto di legge per costituire l’ordine dei filosofi: Kant, Socrate e Aristotele non potrebbero più filosofare senza iscrizione all’ordine.
Il nostro è un paese che tende a vincolare le libertà individuali, i diritti soggettivi naturali dell’individuo. L’artefice di questo è il Leviatano: abbiamo devoluto allo Stato – più nolenti che volenti – le nostre libertà individuali. Per cui lo Stato decide quello che dobbiamo mangiare per non ingrassare e finirà col multarci se mangiamo troppo. Da noi tutto è vietato; l’ultimo governo di centrosinistra ha fatto una legge in base alla quale chi si vuole licenziare non lo può più fare con una lettera al datore di lavoro, ma deve andare in comune, fornire i suoi dati, che il comune invia al ministero del lavoro, il quale esamina la pratica, rimanda al comune l’autorizzazione e il comune la trasmette lavoratore, che a sua volta lo consegna al datore di lavoro. Mi dica lei se questo non è totalitarismo, sia pure soft. Per forza il cittadino/suddito si sente un nessuno!
Come uscire da una simile situazione?
Con una rivoluzione culturale; della quale, però, non vedo i prodromi. Ciò perché in Italia non si è diffusa la cultura delle libertà. In Italia si pensa che la democrazia sia l’arbitrio personale: non ci va una cosa? Ci corichiamo sui binari di un treno e lo blocchiamo. La stessa cosa vale per lo Stato; la parafiscalità degli enti pubblici ha raggiunto livelli intollerabili: si mettono i semafori a tempo per fregare l’automobilista, fargli pagare la multa e aumentare gli introiti del comune. Questa è violenza nei confronti del cittadino.
Esperienze come il Meeting, però, mostrano una volontà di costruzione…
Questa è la ragione per cui non ho mai negato la funzione positiva di movimenti come il vostro. Voi, all’origine della vostra storia, vi siete battuti contro il pensiero unico nelle università e questo è stato un fattore di libertà per tutti. Io conto su movimenti come il vostro come elementi di dinamismo all’interno della società per accrescere la libertà dell’individuo. Sotto questo profilo – posso condividere o meno quello che fate – vi considero un fattore di libertà per il paese.
Al Meeting ci sarà una mostra dedicata a Solženicyn. Come valuta, lei che è stato corrispondente da Mosca, il suo pensiero?
Solženicyn è stato uno straordinario apostolo della libertà, perché è stato un uomo fortemente religioso. Io – non so se purtroppo o fortunatamente – sono al massimo un “aspirante credente” , ma riconosco che una forte religiosità, in un contesto totalitario, ha una carica liberalizzante molto potente.
Non sembra che l’occidente abbia capito Solženicyn.
Perché non ha capito la Russia. La Russia non ha conosciuto l’illuminismo francese. Forse questo non è stato un male; noi l’abbiamo conosciuto e siamo vittime di quella cultura razionalistica, che è una cultura che produce illiberalità, perché eleva la ragione al di sopra di qualsiasi cosa. I totalitarismi del Ventesimo secolo sono figli di questo razionalismo. Mentre l’illuminismo vero, quello liberale è quello scozzese; l’illuminismo che nasce dal basso, dalla considerazione del bene comune.
La Russia non ha conosciuto le correnti di pensiero che in Occidente, bene o male, hanno contribuito a creare le società liberali. Perciò è come un altro pianeta e i suoi migliori uomini di cultura sono profondamente diversi da noi. Solženicyn non era un “liberale”; si batteva per la libertà in ragione della sua religiosità non per una dottrina politica; per questo l’occidente non l’ha capito.
Lei è stato anche corrispondente da Pechino. Dobbiamo aver paura della Cina?
Nei confronti della Cina, così come dell’India, abbiamo l’atteggiamento di chi dice: “Stavamo meglio quando loro stavano peggio”. Se oggi in Cina – che è certamente un paese autocratico e illiberale – c’è qualche milione di persone che mangia e vive meglio di prima e, perciò, consuma più grano, più petrolio e ciò produce aumento dei prezzi, non dobbiamo lamentarcene; non possiamo pretendere che loro continuino a star male per star meglio noi.