Caro direttore,
ho letto con interesse l’intervento di G. Vittadini all’ultima Convention di Diesse, pubblicato recentemente da IlSussidiario.net, tanto da volerne sottolineare qualche punto in particolare.
Ispirata dal metodo di Coluccio Salutati, vorrei parlare dell’articolo di Vittadini iniziando, come lui, dal significato della parola “crisi”. Tuttavia non mi rifarò alla radice greca bensì a quella cinese. È significativo, infatti, che in questa lingua venga usato lo stesso ideogramma per indicare sia la parola “crisi” che il vocabolo “opportunità”. È in questi “termini”, infatti, che vorrei inquadrare la riflessione sulla figura dell’insegnante di oggi; un “artigiano” della scuola che offre una opportunità educativa essenziale a tal punto che non può permettersi di andare in crisi, come l’economia.
Infatti il docente di oggi, pur non essendo un “funzionario”, è chiamato ad esercitare un’importantissima funzione nella vita di un adolescente: essere veramente un “maestro”. Perché se un ragazzo non scopre a scuola la bellezza della vita (comprese le sue difficoltà), non sarà certo la tv ad accendergli la giornata.
E allora come ci si appassiona alla conoscenza? Risponde Vittadini: “educando al desiderio” che, “per essere vero, non deve far fuori nulla di ciò che razionalmente esiste”: la realtà. E come si appaga questo desiderio di sapere? Innanzitutto dando qualche risposta attraverso l’“esempio degli antiqui”, come direbbe Machiavelli, cioè facendo amicizia con (o, per usare termini facebookiani, “chiedendo l’amicizia a”) coloro che prima di noi si sono appassionati allo studio di ciò che ci circonda e che hanno provato a ricercare un senso. Poi, per educare il desiderio, bisogna passare, per esempio, attraverso l’humanitas, quel connotato che, facendoci essere meno “bruti”, ci invita a “seguir virtute e canoscenza”; bisogna incontrare Galileo che ha sperimentato come le leggi matematiche e fisiche non siano scritte nei libri di scuola prima che nella natura. E si potrebbe andare avanti all’infinito nel citare tutte le esperienze che la storia dell’umanità ha fatto per farci ritrovare ora davanti ad un pc.
Ad ogni modo concordo con Vittadini anche quando dice che l’insegnante deve “guardare al fine” (direbbe Machiavelli) quando spiega, pur partendo da quel “particulare” che tanto piaceva a Guicciardini.
Ma se la scuola deve stimolare domande e dare qualche risposta (e fare qualche proposta) “non può essere onnicomprensiva” né deve organizzare il tempo libero dei ragazzi “attraverso attività di ogni sorta. Organizzare la vita a un ragazzo significa soffocarlo” e soprattutto non lo “sfida, perché non crede nella (loro) libertà”. E si può dire di più: nel tempo libero i ragazzi trovano la loro vocazione. Infatti è proprio disponendo di “vacanze” (nel senso latino del termine) che i giovanissimi, usando la libertà in attività che corrispondono alla loro personalità, scoprono cosa vogliono fare da grandi.
Inoltre, riguardo al tema “Educazione come istruzione”, sembra che l’ideatore della riforma di Berlinguer non sia lo stesso Umberto Eco che, su L’Espresso del 25 novembre 2011, ha scritto: “Steve Jobs è diventato famoso non perchè ha inventato oggetti (hardware) ma perchè ha creato nuovi programmi (software). Questo spiega che anche nel mondo delle tecnologie l’avvenire è di chi sappia ragionare e chi compie degli studi classici avrà una mente molto più allenata per farlo”.
È quello che Vittadini, convinto di smentirlo, esprime con queste parole: “oggi l’attività produttiva non richiede solamente persone preparate, capaci e con conoscenze specifiche, ma persone capaci di cambiare, che sappiano adattarsi”. Addirittura, nei concorsi pubblici per dirigenti, non si guarderà più al titolo di studio ma alle capacità e alla professionalità acquisite dalla persona nel corso della sua vita (così ieri l’ultimo Consiglio dei ministri).
Vorrei concludere allora spendendo qualche parola su “uno dei maggiori limiti che vive la scuola: la divisione tra cultura umanistica e cultura tecnica”. È quello che i latini chiamavano rispettivamente “otium” e “negotium” e della cui aspirata fusione nella scuola odierna ho già detto su queste colonne. Cosa può unire “otium e nogotium” oggi per far sì che scuole tecniche e licei non si facciano la guerra per le iscrizioni? Una risposta potrebbe essere: la visione cristiana del lavoro che ho imparato guardando le formelle del campanile di Giotto e ascoltando la spiegazione che ne ha fatto una prof. di storia dell’arte di un liceo toscano. Da lì si evince che, se il lavoro non è solo per gli schiavi, come sostenevano gli antichi, ma è per tutti (perchè ognuno è chiamato a dare il suo contributo e il suo talento alla società che lo circonda) bisogna innanzitutto che la scuola prepari ad essere uomini, e non servi.