Caro direttore,
l’articolo di Danilo Zardin sulla Riforma protestante mi spinge a fare qualche riflessione che amerei rendere pubblica, nello spirito di pluralità che questo giornale, in anni di collaborazione, non mi ha mai negato di esercitare.
Trascurerò la capziosità ad hominem con cui Zardin squalifica i presunti interlocutori di parte avversa, da un lato mostrando una fastidiosa condiscendenza per le loro ragioni, dall’altro banalizzando tali ragioni nelle espressioni stesse con cui si premura di riassumerle in favore del lettore. La trascurerò perché voglio ritenerla involontaria, dal momento che forma e contenuto sono indivisibili come lo sono carne e anima, e che se uno pensa di avere di fronte dei cretini non può — con tutte le migliori intenzioni — che trattarli da cretini. E la trascurerò anche perché di questa faida tra papisti e antipapisti che da anni percorre la Chiesa, ne ho francamente le tasche piene. C’è chi ha perso la fede, chi la salute, e tutti — io per primo — risponderemo a tempo debito.
Mi concentrerò invece sull’argomento “scientifico” — per quanto male questa parola si adatti allo studio e all’esercizio delle discipline umanistiche — che il professor Zardin mette in campo, facendone a un tempo sia argomento che oggetto della sua tesi. Un argomento che non è principalmente di merito ma di metodo.
L’argomento richiama infatti l’importanza di essere mossi, nello studio degli avvenimenti che hanno preceduto, accompagnato e seguito la Riforma, da uno “spirito di carità applicato alla conoscenza storica”. Uno spirito che, nelle parole dell’autore, si identifica con “il desiderio di comprendere cosa è effettivamente successo“. Ora, nessuna persona sana, credo, può contestare un simile principio. È talmente intuitivo, è appunto spirito di carità, che non serve essere storici: se vediamo qualcuno piangere sul ciglio di un marciapiede, subito in noi scatta la domanda “che cosa gli sarà successo?”. Poi magari per borghesismo o per malinteso pudore tiriamo dritti, ma la domanda su quella persona e sul suo dolore ci sorge istintiva.
Siamo tutti d’accordo, quindi, che ciò che deve muovere la conoscenza storica sia il desiderio di comprendere cosa è effettivamente successo. Zardin, tuttavia, dettagliando la prima affermazione, aggiunge che occorre domandarsi “come mai si sono messi in moto tendenze e processi che hanno portato in certe direzioni”. Ecco, da archivista storico, se c’è una cosa di cui sono sicuro, è la diversità radicale delle domande “che cosa” e “come mai”. Quando lavoro su un archivio storico, se devo ricostruire la storia dei suoi documenti, “che cosa” è una domanda che posso e devo fare anzitutto all’evidenza diretta di come le carte mi si parano davanti: se sono in scatole, in fascicoli, sparpagliate sul pavimento, e via dicendo. Quindi alla domanda “che cosa è successo”, rispondo: le carte sono sparpagliate. La domanda “come mai si sono sparpagliate” mi servirà — e tanto più antichi sono i documenti, tanti più “come mai” ci saranno da individuare — per ricondurre le carte al loro ordine originario. Domande complementari e necessarie entrambe, ma lo spirito di carità applicato alla conoscenza storica mi obbliga per prima cosa a una carità verso me stesso: quella di riconoscere che le carte sono inesorabilmente sparpagliate. Senza questo riconoscimento, il mio lavoro di ricostruzione sarà impossibile. O ideologico.
Non ragionava diversamente Gamaliele, quando convinse il Sinedrio a non perseguitare gli apostoli. “Voi pensatela come vi pare, ma questi fanno miracoli e convertono la gente” riconosceva. “Del come e perché facciano, non sappiamo dire. Lasciamo tempo al tempo”.
La domanda sul “che cosa”, anche quando riguarda il passato, non può non nascere da ciò che vediamo nel presente, perché noi non possiamo immedesimarci realmente nella carne storica di chi visse cento, duecento, diecimila anni fa, in un mondo ideale, spirituale e di abiti d’azione che somiglia al nostro quanto può somigliarvi Marte. A maggior ragione, la domanda “come mai” che vi è intimamente connessa, non può che attendere gli elementi che rispondono al “che cosa”. E finché questi elementi non emergono, deve restare sospesa.
Chi scrive non appartiene né ai “nostalgici irriducibili”, né al novero degli “insegnanti rispettabilissimi, uomini di cultura, docenti universitari” che Zardin nella sua panoramica contempla come contestatori. Ma di fronte all’ecumenismo e in maggior specie di fronte ad alcune declinazioni che mi sono più difficili da intendere, ho anch’io una domanda che nasce anzitutto da una contemplazione del presente, e che solo perciò arriva a investire il passato e a interessarsene.
E la domanda, semplice semplice, è: io e un protestante, crediamo nello stesso Dio? A me sembra di no, ma quel che sembra a me è di relativa importanza. Ne ha un po’ di più ciò che afferma e crede la Chiesa. E alla Chiesa, da figlio, chiedo: chi fece la Riforma e chi la seguì, commise un’eresia? O meglio, perché non sono le loro strade e i loro eventuali peccati che mi interessano, ma le mie strade e i miei peccati: se io mi metto a credere e praticare ciò che crede e pratica una chiesa luterana, commetto apostasia o siamo tutti amici come prima?
Se la Chiesa cattolica, come è parso negli ultimi cinque secoli, ha gli elementi per rispondere a questa domanda — e se la risposta è “no” — allora bisognerà camminare con molta carità reciproca, non irrigidire inutili distanze, ma nemmeno dimenticare che le differenze teologiche sono differenze umane e, soprattutto, divine. Che Gesù Cristo sia realmente dentro la scaglietta rafferma che metto in bocca, mi spiace, non è una quisquilia teologica, ma fede dei semplici: investe la verità o meno del modo con cui Dio ha deciso di invadere la mia vita.
Quindi, io e un protestante: oggi, non cinquecento anni fa: oggi — al di là del “come mai” certe cose siano accadute e di tutte le colpe che la Chiesa può aver avuto nell’esasperare gli animi dei riformanti fino a spingerli allo strappo — crediamo nello stesso Dio? Se la Chiesa cattolica ha gli elementi per rispondere, bene, come sopra. Se non li ha, intanto guardiamo i frutti, che sono stati nel tempo guerre e divisione, e lo sono stati fin da subito. Se li ha, e la risposta è “sì, crediamo nello stesso Dio”, allora temo che ci siamo presi in giro per qualche secolo.
Di questo si tratta, e di nulla più: in pace con tutti, da tutti pronto a imparare e senza alcuna intenzione di fare guerre di religione, che per indole già fatico a far guerra alle zanzare.
In pace e in fratellanza, quindi, ma desideroso — e bisognoso — di sapere se la Chiesa crede nella divinità delle sue parole, e se le interessa proporre anche a me di credervi.