Tranquilli: non vi parlerò di crocifissi scolastici né di “feste delle luci” che oscurano il Bambinello. La polemica giornalistica (ciò che alcuni continuano eufemisticamente a chiamare “discorso pubblico”) ha prodotto l’esito usuale: non se ne può più. Così tutti continuano a rimanere prigionieri della propria caverna – l’opinione – e, soprattutto, a usare le parole in maniera inconsapevole, vale a dire secondo il senso comune generato da quello stesso discorso pubblico. Un vero e proprio “effetto blob” che conferma uno degli assiomi fondamentali su cui si regge l’opinione pubblica: la religione (quella cristiana in particolare) produce divisione e conflitto; meno ce n’è, meglio è per tutti.
Cerchiamo di uscire dalla mischia con l’aiuto del filosofo medievista francese Remi Brague. Negli interventi degli ultimi anni egli ci offre la possibilità di riflettere sul significato di quelle parole che costituiscono il retroterra del dibattito pubblico. L’esito è quello di un disorientamento salutare che ci permette di vedere le cose da un punto di vista più comprensivo e rispettoso della realtà.
La parola più rilevante è certo quella di “secolarizzazione”. Il filosofo canadese Charles Taylor ha dato al suo ultimo ponderoso volume il titolo “L’età secolare” (ne ha parlato su queste pagine Angelo Campodonico), cogliendo in tal modo quello che è indubbiamente un carattere saliente della modernità. Nella lingua inglese il termine “secular” equivale al nostro “laico” – vera e propria parola d’ordine della polemica giornalistica nel Bel Paese. Ora, non si tratta solo di ricordare che il termine “secolarizzazione” ha origine nel diritto canonico, dove indica l’alienazione di beni ecclesiastici. Si tratta anche di fare memoria delle circostanze storiche in cui tale fenomeno si produsse a partire dalla prima modernità; tale alienazione infatti avvenne nella forma di una confisca dei beni ecclesiastici da parte dei sovrani temporali in diversi momenti storici: nella Germania luterana, nell’Inghilterra di Enrico VIII, nell’Austria di Giuseppe II, più in generale in Europa dopo la Rivoluzione francese.
Le confische di tali beni – che, vale la pena ricordarlo, costituivano la fonte principale di sostegno di tutte quelle attività sociali di tipo materiale e spirituale di ispirazione religiosa che costituivano l’unico tipo di welfare delle società di antico regime – solitamente non avevano alcuna giustificazione legale; ecco perché, dice Brague, «ci si dovette rifugiare nel cielo delle idee ed evocare una necessità storica per la costruzione dello Stato moderno, il Progresso, i Lumi, persino l’interesse correttamente inteso della Chiesa, ecc.». Da qui il senso della secolarizzazione come “ritrarsi del sacro” dalla sfera pubblica (cultura, economia, politica ecc.). Il termine “secolare” esprime così la “buona” coscienza di sé della modernità illuminata.
Nasce così circa tra Ottocento e Novecento una dottrina della secolarizzazione (oggi fortemente contestata da molti scienziati sociali) che intende avere una portata allo stesso tempo descrittiva e normativa: pretende di dirci come sono andate effettivamente le cose e anche come devono andare. Da qui uno degli assiomi più granitici del senso comune: per diventare moderna, una società deve secolarizzarsi. Sarebbe interessante soffermarsi sull’analisi delle conseguenze nefaste che un tale assunto produce nei rapporti tra le istituzioni internazionali ispirate dall’occidente secolarizzato (Onu, FMI ecc.) e tutti quei popoli che, spinti dalla globalizzazione in atto, cercano di modernizzarsi per migliorare il proprio tenore di vita.
Ma, si dice, la secolarizzazione ha prodotto la separazione tra Stato e Chiesa, e quindi il pluralismo, la tolleranza, la democrazia ecc. Anche qui Brague ci aiuta a orientarci meglio. Nella cristianità (in particolare in quella latina) tale separazione è sempre esistita. Ciò che in realtà è avvenuto è lo sviluppo parallelo di due istituzioni in rapporto tra loro e mai identificabili e la graduale differenziazione di due fonti di autorità, quella religiosa e quella politica, che si intersecano senza mai confondersi. Anzi, se c’è stata un’istituzione secolarizzante in questo senso nell’antico regime è stata proprio la Chiesa la quale, in particolare dopo Gregorio VII e la sua “rivoluzione papale” (H.J. Berman), ha forzato lo Stato a costituirsi come istituzione autonoma priva di sacralità. Quindi, se per secolarizzazione si intende solo la separazione tra Stato e Chiesa, allora la secolarizzazione è figlia della cristianità.
Ma i fautori della dottrina della secolarizzazione non intendono riferirsi solo a tale separazione. Si tratta – lo abbiamo visto – del ritrarsi del sacro dallo spazio pubblico. In fondo è questo ciò che chiedono i “laici”: la religione è venerabile quando rimane qualcosa di privato, è pericolosa per la convivenza civile quando pretende di informare lo spazio pubblico. Tale richiesta è accettabile da un cristiano?
La vera peculiarità del cristianesimo, dice Brague, non è la Legge ma la Grazia. Esso non difende una morale specifica, bensì «si limita a quello stretto necessario che consente alla vita umana di continuare a vivere e di restare umana», una sorta di “kit di sopravvivenza” che trova espressione nei dieci comandamenti, oltre che in pensatori e geni religiosi disseminati un po’ ovunque nella storia dell’umanità. Il cristianesimo, in altre parole, non propone una nuova via ma fornisce gli strumenti per seguire la via che è già conosciuta. La Grazia rende possibile l’obbedienza alla Legge: «Non si riflette abbastanza sul fatto che il sacramento centrale del cristianesimo, l’Eucaristia, è un pasto. […] questo corpo sacrificato è reso disponibile come un nutrimento tale che esso non detta alla persona che lo assume cosa deve o non deve fare, ma dà la forza di farlo». Il contenuto della Rivelazione non è una volontà, ma una Persona; con ciò Dio «non richiede nulla o piuttosto non chiede nulla più di ciò che il suo dono già chiede, grazie al semplice fatto che esso è dato: essere ricevuto. Nel caso dell’uomo questa ricezione non richiede altro che l’umanità».
Sta proprio qui, a parere del filosofo francese, il vero problema dell’uomo contemporaneo: una carenza nella percezione del proprio valore, nella coscienza delle ragioni per cui la vita vale la pena di essere vissuta. «Come vivere lo sanno tutti, o possono saperlo. Ma perché vivere, perché scegliere la vita e, tanto per cominciare, perché dare la vita, sono interrogativi più complessi. È a essi che il cristianesimo fornisce una risposta».
In definitiva, se considerassimo il cristianesimo come una risorsa per la convivenza civile e non solo come un insieme di norme anche il discorso pubblico su crocifissi e feste scolastiche acquisterebbe una prospettiva diversa.