Strano mondo, quello dei dirigenti scolastici.
Da quando, da più di dieci anni, hanno assunto e moltiplicato impegni e responsabilità, c’è stata come una gara a farne i capri espiatori di tutte le magagne della scuola: dalle continue riforme ai tagli sulle risorse, dalle classi pollaio a precarietà di vario tipo. Responsabili di tutto ma con nessuna possibilità di vera decisione dal punto di vista del governo del “sistema scuola”, responsabile dei risultati di fronte a studenti, genitori e contesto territoriale senza nessuna autonomia nei confronti del personale e delle risorse finanziarie.
Per questo motivo, ho preso l’abitudine di mettere in un angolo la forma (“dirigente scolastico”) per riprendere la sostanza (“preside”). Cioè, io non “dirigo”, ma “presiedo”. O, meglio, cerco di farlo nel migliore dei modi, nonostante il guazzabuglio di “organi collegiali” ancora legati alle mitologie da anni settanta, figlie di un assemblearismo che ancor oggi continua a guardare con distacco l’etica delle reciproche responsabilità. Appunto, la responsabilità. In particolare, quella verso gli utenti del nostro “servizio”, cioè gli studenti e la loro domanda di futuro possibile.
Quanti collegi dei docenti, quante assemblee sindacali conoscono il senso del “servizio”?
Ma anche nel mondo dei “presidi”, nella totale indifferenza politico-soindacale, al di lá delle solite parole di rito, troviamo le ingiustizie.
Per dirne una: fanno lo stesso mestiere, ma hanno stipendi diversi. Non parlo dello stipendio base, nemmeno di quella parte che è legata alla complessità della propria scuola, secondo una specifica “fascia”, differenza prevista dalla contrattazione integrativa regionale (“retribuzione di posizione nella parte variabile”).
Parlo invece dello stipendio al netto della diversità delle proprie scuole, grandi o piccole.
Sappiamo le tre diverse situazioni stipendiali: lo stipendio di chi era preside prima del passaggio nel 2001 alla dirigenza scolastica (quando era meno complicato fare il preside); lo stipendio di chi era preside “incaricato” da docente prima di diventare “di ruolo” attraverso, soprattutto, concorsi riservati, cioè delle sanatorie; lo stipendio infine di coloro che sono diventati presidi vincendo da docenti un vero concorso, cioè un concorso ordinario, iper-selettivo e per pochi fortunati.
Qui non si discutono tanti colleghi in gamba, ma l’ingiustizia della non-pari opportunità. Non c’è cioè “pari dignità”.
Quanti tra i dirigenti vincitori dell’ultimo concorso ordinario conoscono tutto questo?
A dire il vero, ci sono stati tentativi, con ricorsi ad hoc, per chiedere il rimedio a questa ingiustizia. Ma, ad oggi, solo illusioni. Ovviamente, a parte le solite prese di posizione solo di facciata, nella totale indifferenza da parte delle sigle sindacali, compresa l’Anp.
Provo a spiegare.
Per coloro che erano già presidi prima del 2001 c’è la Ria, per i vecchi docenti a suo tempo presidi “incaricati” c’è ancora oggi, anche se sono diventati presidi di ruolo dopo il 2007, cioè dopo i vincitori del primo concorso ordinario (l’unico vero concorso in uno Stato serio), un assegno ad personam (sic!).
La Ria dei vecchi presidi invece è una sorta di rivalutazione, chiamata “retribuzione individuale di anzianità”, calcolata sugli anni di presidenza prima della dirigenza scolastica. Una stranezza.
Dire queste cose secondo verità è fare polemica fine a se stessa, o invece iniziare a mettere ordine nella confusione generale della burocrazia statale?
Su questo aspetto “di solidarietà”, a parte, come dicevo, parole di rito, ciò che sconcerta è il silenzio, appunto, dei sindacati. Guidati ancora oggi, altro sconcerto, dagli stessi per tanti anni. Una riforma, su questo punto, davvero urgente? Introdurre un limite di due mandati.
Sarebbe facile chiedere di alzare lo stipendio a tutti, ma l’attuale crisi non credo lo possa permettere. Ci vuole quindi un atto di solidarietà.
È proprio su questa solidarietà che dovrebbe emergere il ruolo di un sindacato: se non persegue diritti e solidarietà, appunto, a che pro iscriversi? Solo per la assicurazione? Ecco il motivo del vuoto culturale dei sindacati odierni.
Le organizzazioni sindacali, è sempre bene ribadirlo, sono importanti in una società democratica. Il problema è che i sindacati devono fare i sindacati, cioè i rappresentanti, ovviamente, degli interessi di una parte, ma di una parte che sa aprirsi al “bene comune”. Oltre i corporativismi.
Per il mondo della scuola, è facile notarlo, la crisi della rappresentanza sindacale non riguarda solo i docenti ed i non docenti, ma anche i presidi: difficile oggi trovare luoghi adeguati di lettura delle nuove professionalità richieste dalla nostra “società aperta”.
Vogliamo riformare questo mondo: basterebbe porre un limite ai mandati sindacali, al massimo due. Una piccola-grande rivoluzione.
Quando riceviamo inviti per riunioni sindacali, sappiamo già la loro consistenza, cioè assise di routine, raramente occasioni importanti per cogliere a fondo il merito dei problemi. Cioè una cultura sindacale aperta e coinvolgente in termini sociali.
Ce lo diciamo ogni giorno: è nei momenti difficili che si possono e si devono fare le riforme serie.
Non solo. Perché i presidi oggi hanno un’altra responsabilità: aprire per primi la strada al sistema di valutazione nel mondo della scuola.
Arriverà anche per i presidi, finalmente, una forma di valutazione, tentata anni fa col progetto Sivadis, e poi sparita nel nulla? Se dunque differenza anche stipendiale ci deve essere, è giusto che derivi da una valutazione concreta del proprio “servizio”, non dai retaggi corporativi del passato. Un sindacato serio questo dovrebbe mettere tra le proprie priorità!
A dire il vero qualcosa si sta muovendo: parlo qui del progetto VALeS. Un primo passo. Ma se i presidi è giusto che vengano valutati, vanno date a loro anche le possibilità e le risorse per gestire con qualità queste responsabilità. Ad oggi discorsi ancora tabù.
Di tutto questo dovrebbero discutere i presidi nei loro incontri sindacali, contro il rischio del piccolo cabotaggio. Ma non so se sia una pia illusione.
Perché, per ritornare all’ingiustizia denunciata, i sindacati non fanno una proposta semplice ed incisiva, per ragioni di equità? Basta poco: riassorbire la Ria e l’assegno ad personam ridistribuendoli in modo equo a tutti i presidi. In forma proporzionale.
Per farmi capire: con una scuola “di prima fascia”, con 2000 studenti, 165 docenti, sei indirizzi, 45 Ata, ricevo lo stesso stipendio di un collega, a suo tempo “preside incaricato”, che presiede una scuola di 600 studenti. E nessuno che si scandalizzi, tra i sindacati, ovviamente, ma in primis tra i ministeriali. Tutti indifferenti.
Lo sappiamo tutti: le cose importanti non sono quelle che convengono, ma quelle che costano. Piccole-grandi scelte di solidarietà.