In occasione del 2300° anniversario della nascita di Archimede (287 a.C.-212 a.C.), il 2013 è stato dichiarato anno Archimedeo. L’Unione Matematica Italiana (UMI), in collaborazione con il Piano Nazionale Lauree Scientifiche, ha bandito un concorso rivolto a studenti delle scuole superiori che svolgano un’attività riguardante Archimede e i suoi studi, ed il relativo “Premio Archimede 2013” sarà consegnato a giugno 2013 a Siracusa, nell’ambito di una serie di manifestazioni ed eventi.
A pensarci, non è così frequente che, tra gli anniversari di grandi personaggi della scienza, della letteratura o dell’arte che si celebrano ogni anno, accada di spingersi così indietro nei secoli come in questo caso: 2300 anni sono tanti. Certamente Archimede è una figura simbolo: il suo volto è raffigurato sulla Fields Medal, il più prestigioso premio assegnato per la ricerca matematica; “nel nostro piccolo”, l’immagine della sfera inscritta nel cilindro, che Archimede volle incisa sulla sua tomba, è il logo dell’UMI; episodi e aneddoti della sua vita sono ricordati in tanti testi (e per lo più sono pura fantasia, come il suo eureka o gli “specchi ustori”). Ma nella figura di Archimede cosa c’è, al di là del ruolo simbolico, di così importante da attraversare 23 secoli di storia?
Archimede è stato un matematico, ma anche uno scienziato (per quanto questa parola vada usata con cautela prima della nascita della scienza moderna) e un ingegnoso inventore di macchine ed espedienti tecnici. Ma è evidente che è la matematica a costituire il suo interesse primo, il filo rosso che attraversa tutta la sua attività intellettuale: le sue idee di statica sull’equilibrio delle leve si intrecciano col calcolo delle aree e dei volumi, cuore della sua ricerca matematica; la sua abilità nel progettare catapulte in grado di colpire a distanze diverse e graduate – vero punto di forza nel difendere la sua città assediata – si basa sulla sua capacità di calcolare radici cubiche di numeri interi con buona approssimazione; la sua idrostatica è un esempio di ragionamento fisico-matematico a priori, più che frutto di indagine sperimentale.
Cerchiamo quindi di avvicinarci alla sua matematica, per cogliere almeno qualche spunto su che cosa essa contenga di così “immortale” da farci celebrare un anniversario dopo 2300 anni.
La matematica di Archimede ruota intorno al problema di misurare aree e volumi di figure a contorni curvilinei, problema lasciato ampiamente aperto dalla geometria classica di Euclide. Ad esempio, si deve ad Archimede la determinazione del volume della sfera e dell’area della superficie sferica, noto il raggio; il volume di vari solidi di rotazione, l’area di un segmento di parabola, l’area limitata da un giro di spirale.
Si tratta di problemi difficili perché, ad esempio, una figura piana a contorni curvilinei, come un cerchio o un segmento di parabola, non si può ricoprire con un numero finito di quadratini “unità di misura”, né si può scomporre in un numero finito di triangoli o altri poligoni di cui si possa poi calcolare l’area con metodi elementari: è necessario utilizzare qualche tipo di procedimento almeno potenzialmente infinito.
Ad esempio, per calcolare l’area di un segmento di parabola Archimede mostra come si possa inscrivere dentro questa figura una successione di triangoli sempre più piccoli e a due a due disgiunti, di aree calcolabili esattamente. Ora, per ricoprire esattamente l’intera figura curvilinea occorrerebbero infiniti triangoli, e il rigore greco non permette di considerare infiniti oggetti “tutti in una volta”; ma Archimede aggira il problema in modo assolutamente rigoroso: enuncia anzitutto il suo risultato, ossia che l’area del segmento di parabola è 4/3 dell’area del massimo triangolo in esso inscritto, e per dimostrarlo prova (detto in modo un po’ semplificato) che pur di prendere un numero sufficientemente grande dei triangolini che ha inscritto nel segmento di parabola, la somma delle aree dei triangolini differisce di poco quanto si vuole dal valore di 4/3 dell’area del triangolo massimo. Detto col linguaggio moderno, Archimede ha così dimostrato un risultato di calcolo integrale (disciplina che nascerà intorno al 1700 con Newton e Leibniz), e l’ha fatto applicando correttamente il concetto di limite (che nascerà nell’800 con Cauchy e Weierstrass).
Di più, Archimede riproporrà questo metodo nel calcolo di aree e volumi di molte altre figure, ogni volta implementando l’idea generale mediante ingegnose costruzioni geometriche che spingono al limite i metodi e le conoscenze della geometria euclidea del tempo. Ce n’è abbastanza per dire che Archimede è il più grande precursore nella storia della matematica, e probabilmente nella storia del pensiero scientifico: ha applicato ripetutamente e con successo idee che trovano la loro naturale collocazione in una disciplina inventata 19 secoli dopo e resa rigorosa un altro secolo dopo.
Ma Archimede non è ammirato da 2300 anni solo per l’oggettivo valore dei suoi risultati: è anche il suo stile ad aver sempre colpito l’immaginazione degli studiosi che vi si sono accostati. Leggere oggi le introduzioni dei suoi lavori dà una fortissima impressione di modernità. Sembra lo stile di un brillante paper di ricerca, non quello di un pesante trattato di altri tempi. Di lunghezza moderata, nessuna retorica, ogni suo “libro” inizia con un’introduzione in cui in modo chiaro e sintetico si enunciano i risultati principali che si dimostreranno in seguito, dando i dovuti crediti agli autori che si sono già occupati dell’argomento (ad esempio, prima di presentare il proprio risultato sul volume della sfera cita Eudosso come autore del risultato sul volume del cono e della piramide) ed evidenziando senza esagerazioni ciò che di effettivamente originale c’è nel lavoro presente. Un’onestà intellettuale che nei secoli successivi non sarà sempre così facile ritrovare.
Un termine spesso usato nel descrivere la matematica di Archimede è eleganza.
Anzitutto, l’eleganza del risultato. Il che sembra un po’ un controsenso perché, dopo tutto, il risultato si scopre, perciò è quello che è, elegante o non elegante non per merito dell’autore. Ma c’è modo e modo di vederlo e di esprimerlo. Ad esempio, ne La sfera e il cilindro scrive che il cilindro circoscritto a una sfera ha volume che è la metà in più (cioè: è 3/2) di quello della sfera, e superficie che è la metà in più di quella della sfera. Una perfetta coincidenza, si potrebbe dire. Ma in effetti, si può osservare che se la superficie totale del cilindro è 3/2 della superficie della sfera (con simboli attuali: vale 6πr2), allora la superficie laterale del cilindro è uguale a quella della sfera (cioè vale 4πr2), un risultato che, in senso assoluto, può essere pure considerato elegante; ma volendo esprimere simultaneamente il risultato sul volume e quello sulla superficie, la scelta di Archimede è quella di maggior effetto: lo stesso rapporto tra le aree e tra i volumi. Per una teoria della misura tutta basata su rapporti e proporzioni, com’era quella greca, questo dev’essere sembrato un risultato bellissimo. Questo è il risultato che lo scienziato volle raffigurato sulla propria tomba.
Ancora, nel libro La misura del cerchio, Archimede dimostra che il rapporto tra la circonferenza e il diametro (cioè il numero che chiamiamo π, e che già da Euclide si sapeva essere un rapporto costante per tutti i cerchi) è compreso tra 3+10/71 e 3+1/7. Di nuovo, si potrebbe dire: beh, se questo è quello che ha trovato, questo ha scritto. Ma in realtà questo non è quello che ha trovato. Perché in effetti Archimede, confrontando la lunghezza della circonferenza con quella del perimetro dei poligoni regolari di 96 lati inscritti e circoscritti, trova che il numero π è minore di 14688/4673,5 e maggiore di 6336/2017,25. Numeri brutti, però, privi di qualunque eleganza, che spingono Archimede a buttar via un pizzico di informazione pur di esprimere la sua stima per mezzo di due numeri più facilmente visualizzabili, memorizzabili, e simili tra loro: perché 1/7 è anche 10/70, quindi Archimede scrive che 3+10/71<π<3+10/70, un risultato che è vero anche se meno preciso di quello ottenuto in prima battuta, ma in compenso è molto più elegante.
La ricerca dell’eleganza nell’esprimere il risultato trovato non cancella la consapevolezza di avere scoperto qualcosa che è vero non grazie a noi, ma “oggettivamente”. Leggiamo ancora nell’introduzione de La sfera e il cilindro dove, dopo aver riportato con ammirazione i risultati di Eudosso sul volume della piramide e del cono, Archimede commenta: «Sebbene queste proprietà fossero sempre state naturalmente inerenti alle figure, tuttavia esse rimasero in effetti sconosciute a tutti i numerosi abili geometri che vissero prima di Eudosso, e non erano state osservate da nessuno di loro». Come a dire: la verità è nell’oggettività delle cose, c’è chi non la vede e chi la vede e la porta alla luce per tutti. Ma al tempo stesso, quella ricerca di eleganza che costantemente vediamo all’opera in Archimede ci ricorda che anche se una verità è la stessa per tutti, il modo di gioirne e apprezzarla è assolutamente personale.