Quello che per me è più importante nell’avvenimento del Natale è stato affermato da due apostoli dell’Ortodossia – il metropolita Antonij di Surož, nel XX secolo, e Dostoevskij nel XIX – e risuona nell’antico inno che si canta nella liturgia di Natale della Chiesa Ortodossa. Il metropolita Antonij diceva che il Natale del Signore testimonia che Dio prende su di Sé tutte le conseguenze di tutte le cadute e di tutti i traviamenti delle Sue creature. Dio ci crea come esseri liberi e ci permette di essere indipendenti da Lui tanto quanto lo desideriamo, ma il peso delle conseguenze degli errori di queste Sue libere creature non le carica solo e definitivamente sulle loro spalle: ci offre la Sua spalla, prende su di sé tutte le conseguenze del nostro peccato (che è un fallimento, un errore, in greco letteralmente un mancare il bersaglio).
Nel Natale il Signore si manifesta come un Essere assolutamente responsabile. Egli non solo nasce in una grotta come un bambino totalmente indifeso – perché per lui “non c’era posto nell’alloggio”, una condizione di abbandono così totale che non è frequente trovarne di simili tra gli uomini – ma anche nasce come dal grembo della terra, che diventa essa stessa genitrice di Dio, rendendo la nascita di quel bambino un atto cosmico. Così Egli assume su di sé ogni avvenimento della vita umana, anche quelli più miseri e insignificanti, e lo traduce in qualcosa di immensamente grande e degno.
Nel racconto Il bambino alla festa di Natale da Cristo Dostoevskij ci mostra un tipico scantinato pietroburghese lasciandoci intravvedere al suo interno, come in controluce, un’immagine devastata della grotta del presepio. Ci dice: sono già passati duemila anni da quando il Signore è nato e noi celebriamo il Suo Natale come una grande festa, ma non siamo capaci di vedere il Bambino in tutti i bambini che nascono negli scantinati del mondo e non siamo capaci di vedere Sua Madre in tutte le madri che soffrono e nelle madri abbandonate. Noi celebriamo il Suo Natale mentre loro muoiono in questi tuguri, scacciati, allontanati dalle nostre feste. Se noi soltanto imparassimo a vedere che è Quel Bambino che soffre in tutti i bambini, e a riconoscere Sua Madre in tutte le madri indifese per le quali, di secolo in secolo, “non troviamo posto nel nostro alloggio”, la terra diventerebbe istantaneamente paradiso. A cosa serve in fondo costruire dei modellini del presepio se il nostro mondo, come in passato, è pieno di presepi reali che ci chiedono di fare entrare lì la festa vera del Natale?
Infine, il grande inno di Natale – “La Tua nascita, Signore nostro Dio, ha fatto risplendere nel mondo la luce della ragione: perché in esso quelli che servivano le stelle hanno imparato dalla stella a inchinarsi a Te, sole di verità, e a riconoscerti dall’alto Oriente. Signore sia gloria a Te!” – proclama che dall’istante del Natale le cose smettono di essere idoli, non sono più quella sostituzione del Dio vero che prima erano le stelle per i magi, ma diventano strada al Signore perché da quell’istante il Suo volto si riflette in tutto il mondo, in ogni sua particella infinitesimale. Così noi ora possiamo conoscere Dio attraverso la Sua creazione perché se la osserviamo attentamente e ci rendiamo disponibili a imparare da tutte le cose del mondo, ogni singola cosa, benché sembri provenire dalle distanze più remote, ci riporterà sempre lì, al Presepio. Per questo ormai non saremo mai più abbandonati…
Ma c’è ancora una sensazione che mi accompagna sempre in questa festa: prima di venire da noi, che non abbiamo voluto accoglierlo in casa nostra, Egli si reca dai nostri fratelli, dagli animali. L’asino e il bue Lo ricevono con gioia, Lo ospitano in casa loro e Lo scaldano col loro fiato nella mangiatoia. “Cristo è con loro ancor prima che con noi” dice a questo proposito lo starec Zocima, e noi faremmo bene a ricordarcelo con venerazione.