Un mito ha origine remote, in genere inattingibili se non attraverso indagini di antropologia comparata non sempre esenti da semplificazioni ideologiche. Il mito ci giunge allora attraverso la sua rilettura letteraria o figurativa: e il fascino di questa rilettura consiste nel fatto che l’autore usa del mito come chiave interpretativa della realtà, della sua persona e del suo presente. Pertanto lo stesso mito assume variazioni, non solo episodiche ma a volte anche importanti, a seconda dell’uomo che lo sceglie come segno. Per questo la storia di un mito non termina mai, ma continuamente sorgono riletture, adattate al nuovo presente.
Eppure non tutto è legittimo. Il mito, in particolare il mito classico, pesca nelle profondità dell’uomo, va alle radici del suo cuore: contiene ultimamente un’ipotesi, spesso dolorosa, lacerante, astiosa, di rapporto con l’assoluto. Toglierlo significa tradire, compiere un’azione culturalmente scorretta, oltre che banalizzare e ridurre. Baricco che riscrive Omero senza il rapporto fra gli uomini e gli dèi, o la Parrella che trasforma il gesto profetico di Antigone in un’eutanasia compiono un atto culturale scorretto, lo sfruttamento di un tema che permette loro di non dover inventare ex novo, ma non li porta al rispetto del nucleo originario. Questo nucleo non può cambiare.
Che cosa dunque può cambiare, svelando la visione dell’autore e, nel caso del poeta tragico greco, la sua intenzione pedagogica nei confronti della città? L’esempio che scegliamo è quello di uno dei personaggi mitici più noti: forse, attraverso la lettura dantesca, il più noto, cioè Ulisse. Per tutta la storia delle riscritture del mito i suoi connotati restano gli stessi: l’intelligenza, l’inventiva, l’abilità politico/militare, la capacità di attendere con pazienza il momento giusto padroneggiando impulsi e passioni, l’abilità nell’uso della parola. Nei poemi omerici tutte queste caratteristiche sono viste, e usate, in modo assolutamente positivo. Nell’Iliade è evidente la stima che gode nell’esercito: è scelto per l’ambasceria a Troia, per quella ad Achille affinché cessi dall’ira; svolge nella preparazione del duello il ruolo che per i Troiani svolge Ettore; nell’imbarazzante situazione della riconciliazione fra Agamennone ed Achille si interpone con saggezza tranquilla ed equilibrio; nell’Odissea è ricordato con rimpianto dagli ex-compagni di guerra, dai parenti e dai servi in patria; il suo ruolo politico ad Itaca è rimasto scoperto, nessuno senza di lui è stato più chiamato in assemblea; con i compagni di viaggio è attento, prudente, capace di correggersi dove sbaglia, di frenare l’ira e la curiosità pericolosa; la dea Atena ha con lui un rapporto di amicizia, che Ulisse comunica al figlio rivisto dopo vent’anni.
Quando lo ritroviamo nelle tragedie del V secolo ateniese, le sue doti sono le stesse, ma il personaggio è mutato. Non è certo un caso che tutti e tre i tragici abbiano proposto al pubblico una tragedia (Palamede: tutte e tre ci sono giunte in frammenti) in cui Ulisse provoca con una falsa accusa il processo e la condanna di un compagno la cui intelligenza e la cui inventiva gli fanno ombra.
Ma la tragedia in cui emerge maggiormente il mutamento è il Filottete di Sofocle, del 408. Siamo nell’ultima fase della guerra di Troia, e storicamente nell’ultima fase della guerra del Peloponneso: ad Atene la democrazia degenera da un lato in demagogia, dall’altro in tentativi ricorrenti di riduzione; pochi anni dopo, l’ultima vittoria sarà vanificata dall’eliminazione interna dei capi militari e si profilerà una sconfitta umiliante ed una tirannia.
In questo contesto Sofocle ci mostra il tentativo di indottrinamento politico che Ulisse svolge verso un ragazzo, il figlio di Achille nuovo alla guerra, ansioso di fare le sue prove, orgoglioso di essere stato scelto dagli dèi per porre fine all’impresa. Il suo compito è ingannare, gli spiega Ulisse: fingere l’amicizia verso Filottete, un solitario guerriero malato che cova da dieci anni il rancore per l’esercito che l’ha abbandonato; deve conquistare la sua fiducia, promettergli di riportarlo a casa, e così sottrargli il suo arco, che secondo l’oracolo è necessario per la vittoria. Non è questo che il giovane immaginava, ma la lotta a viso aperto, la gloria onorevole: e Ulisse gli dice di avere pazienza (quasi una parodia della pazienza dell’Ulisse omerico), il tempo di essere giusti arriverà quando si sarà ottenuto il successo.
Il ragazzo è attratto dal male ma inquieto, e turbato dalla fiducia che l’antico guerriero gli dimostra subito; finché, dopo avergli preso l’arco, gli confessa l’inganno. Filottete ha parole dure verso di lui, e più dure ancora verso il pervertitore: “La tua anima malvagia, che sempre osserva attraverso cavità oscure, ha ben insegnato a lui, che era diverso e non lo voleva, ad essere abile nel male“.
Ma che cosa è avvenuto fra Omero e l’età dei tragici? E qualcosa di simile può essere accaduto anche nel nostro presente? Si è diffusa una sfiducia nell’utilizzo che l’uomo può fare, e ha fatto, delle stesse doti di Ulisse: l’intelligenza, la parola, il sagace uso del tempo, la sapienza politica. Sofocle stesso lo dice in un brano corale, che è insieme giudizio e proposta: “Possedendo oltre ogni aspettativa l’abilità sapiente, (l’uomo) ora va verso il male ora verso il bene; se accorda le leggi della terra con la giustizia giurata degli dèi fa grande la città; un senza patria è colui che per audacia convive col male. Chi agisce così non mi sia compagno di focolare né condivida i miei pensieri“.