Devo fare alcune telefonate, prima di partire: a un’amica e ai miei due figli. Chiamo l’amica e mi risponde subito: poche parole, sta poco bene, ci risentiremo. Quanto ai miei figli, nessuna risposta. Richiameranno, ma più tardi, quando sarà per loro il momento buono.
Un pomeriggio, qualche tempo fa. Devo completare l’iscrizione di alcuni allievi ad un corso estivo. Uno degli interessati mi ha comunicato dati lacunosi, siamo alla scadenza, devo rimediare in fretta. Alla fine riesco ad avere il suo numero, chiamo. Non risponde. Ci riprovo altre due volte, a intervalli di un’ora. Niente. Il giorno dopo a scuola gli esprimo il mio rammarico: i tempi sono scaduti, niente corso estivo. Perché non ha risposto? “Ho visto le chiamate ma non ho riconosciuto il numero”.
E così si chiude il cerchio. Il cellulare pareva nato per espandere indefinitamente le potenzialità comunicative del telefono fisso; invece è diventato un mezzo di selezione dei contatti, dei tempi, degli eventi. La possibilità di non rispondere è sempre stata intrinseca al mezzo, va da sé, come a ogni mezzo. Tuttavia l’impressione è che qualcosa sia cambiato in profondità. Lo squillo del telefono era correlato a due idee fondamentali: l’aspettativa di una novità, l’allarme destato dall’appello (qualcuno potrebbe avere bisogno di me); in una vita in cui la quotidianità, la normalità erano fatte di rapporti reali, vis à vis, il mezzo rappresentava l’irruzione dell’altro, del nuovo, dell’inaspettato. Oggi, nella nostra vita dispersa, rappresenta lo strumento per difendersi, per tenere sotto controllo i pochi legami che ci interessano, per assicurarci la continuità del contatto, per tracciare il perimetro delle certezze. Non la possibilità di non mancare all’appello, non in primo luogo, almeno; piuttosto la libertà di decidere di non rispondere, di abolire l’intrusione.
Da ragazza amavo il suono del citofono: c’era sempre un amico che passava di lì e suonava, anche solo per salutare; o un prete che veniva a prelevarti perché aveva bisogno di una mano; o una vicina che doveva uscire di corsa e lasciava il bambino in custodia.
Tutte cose semplici, banali, sono cresciuta dandole per scontate. Fino a quando mi sono resa conto che erano scomparse.
Con le madri degli amici del mio figlio più giovane quasi non ho avuto rapporti. I bambini arrivavano, poi a un certo punto dicevano “Vado, la mamma è sotto che mi aspetta”; la madre li aveva chiamati al cellulare, aveva chiamato loro direttamente, non me.
Una sera sono passata da amici, amici da sempre, a pochi passi da casa mia. Arrivata lì, la scoperta: citofono nuovo, per suonare bisognava avere il codice; o almeno il cellulare per avvisare e farsi aprire. Così il progresso tecnologico ci difende anche dalla scampanellata casuale. Niente più “Passavo di qui…”.
La società è diventata più pericolosa, rispetto a trenta, quarant’anni fa? Le statistiche dicono il contrario.
Semplicemente la tecnologia costa, dunque svolge il compito primario di tutto ciò che costa: separare. Chi ce l’ha da chi non ce l’ha, chi voglio vedere da chi non voglio vedere, e così via. Se posso pagare, posso tagliare fuori. Posso anche aprirmi, volendo, ma certamente posso tagliare fuori. Le cose che costruiamo non ci apriranno, non saranno mai esse a costruire relazioni; lasciate a se stesse, esprimono la nostra ferita profonda (chiamiamola col suo nome, via, peccato originale) e diventano muri. Solo i muri crescono spontaneamente dalle cose, sempre e solo dalla nostra volontà dipenderà l’esistenza dei ponti.
Tutto ciò ha qualcosa a che vedere con la scuola? Forse vale la pena di pensarci.