Uno degli eventi più rappresentativi della dissoluzione della nostra identità nazionale fu sicuramente il rapimento e l’assassinio del segretario della Dc Aldo Moro, ucciso il 9 maggio 1978. Fu il crimine culmine di una serie di violenze e sopraffazioni iniziate dieci anni prima, in quel Sessantotto che rappresenta l’inizio di un disfacimento dal quale non siamo ancora usciti.
Il delitto Moro è tornato di attualità due anni or sono, in seguito alla decisione del Parlamento di dare vita ad una commissione d’indagine su quel crimine mai chiarito, ma anche per la riapertura delle indagini ad opera dell’autorità giudiziaria. Infatti, il pubblico ministero del tribunale di Roma Luca Palamara, titolare del fascicolo, si è recato negli Usa proprio nel 2014 per interrogare il funzionario statale americano Steve Pieczenik, oggi settantaduenne, che, durante il sequestro Moro, fu inviato a Roma dal presidente americano Jimmy Carter quale consulente del nostro ministro degli Interni Francesco Cossiga. Non si è saputo che cosa abbia detto Pieczenik a Palamara, e già questo non è un buon segno, in quanto dimostra che non c’è, da parte della stampa — eteroguidata — la volontà di non mollare la preda.
Andare a fondo su un crimine politico tra i più gravi della storia italiana del Novecento potrebbe sicuramente aiutare a fare finalmente chiarezza su una delle organizzazioni più oscure che hanno insanguinato per un decennio le nostre città: le Brigate rosse. Mi limito a ricordare che, dopo la morte di Margherita Cagol, compagna del fondatore delle Br Renato Curcio (1975, nel conflitto a fuoco con i carabinieri alla Cascina Spiotta di Acqui Terme per la liberazione dell’industriale Gancia rapito a scopo di estorsione), e con la seconda e definitiva cattura di Curcio e del suo braccio destro Alberto Franceschini (gennaio 1976), la direzione del movimento passò a Mario Moretti. Da quel momento ebbe inizio la serie interminabile di omicidi premeditati a freddo — a cominciare da quello del procuratore generale di Genova Francesco Coco e della sua scorta — che mai, prima di allora, si erano verificati.
Mario Moretti era un freddo e determinato stratega, non un ingenuo idealista. Perché, se lo fosse stato, non avrebbe sequestrato Aldo Moro (per scambiarlo con otto compagni detenuti), ma magari Andreotti, o Fanfani. Di sicuro, un leader Dc gradito all’Occidente, alla Nato, agli Usa. Invece, Moro era assolutamente sgradito agli Stati Uniti, perché aveva deciso di aprire le porte del governo al partito di Berlinguer, ormai non più asservito a Mosca. Ma questo particolare (cioè un Pci finalmente italianizzato), l’America di Carter, di Henry Kissinger e di Pieczenik non lo dava certamente per scontato. Per loro, affidare qualche ministero al Pci significava consegnare all’Urss le chiavi di tutte le basi militari americane, i depositi di armi anche atomiche, i segreti americani sul nostro territorio.
Non per nulla, durante un suo viaggio negli Stati Uniti, Henry Kissinger (che tutt’ora tiene banco in Italia, ospite dei più autorevoli talk show televisivi, malgrado i suoi novantatré anni, che peraltro non dimostra affatto) aveva sibilato a Moro: “Lei la deve smettere di volere il Pci nel governo. O la smette, o la pagherà cara” (testuale: testimonianza della moglie di Moro, Noretta, alla Commissione parlamentare).
A questo punto, qualcuno potrebbe domandarsi come mai nessuno, all’interno dello staff delle Br, pensò di dissuadere Moretti dal puntare sull’obiettivo Moro, leader democristiano sì, ma di certo non sgradito alla sinistra. La risposta è molto semplice: quello staff, come peraltro l’intera base brigatista, era composto da una massa di idioti.
E vediamo come Mario Moretti ha scontato i sei ergastoli cui fu condannato. Oggi settantenne, è in regime di semilibertà dal 1997. La notte (ma il particolare andrebbe controllato, e io non ho né il tempo né il modo né una testata che mi copra, per farlo, o per farlo fare ad un giovane collega) va a dormire nel carcere milanese di Opera e di giorno lavora, come dirigente, in una cooperativa che gestisce gli impianti informatici della Regione Lombardia. Ha scritto un libro di successo (Brigate rosse, una storia italiana) e ha fondato l’Associazione “Geometrie variabili” per fornire “lavoro non alienante ai detenuti”. Di geometria (la “geometrica potenza di via Fani”) parlava anche, a proposito dell’annientamento della scorta di Moro, il suo braccio destro Oreste Scalzone, scarcerato “per motivi di salute”, poi “esule” a Parigi fino al 2007, quando poté tornare in Italia senza scontare la condanna perché i giudici della Corte d’assise di Milano avevano sancito l'”intervenuta prescrizione in relazione ai reati di partecipazione ad associazione sovversiva, banda armata e rapine”.
Già questi particolari inducono a forti perplessità. Ma c’è ben altro che meriterebbe di essere approfondito, pubblicizzato e seguito. Mi riferisco alle testimonianze storiche di due personalità come il senatore Giovanni Pellegrino, per ben sette anni, dal 1994 al 2001, presidente della Commissione parlamentare stragi, e il senatore Ferdinando Imposimato, già giudice istruttore per il sequestro e l’assassinio Moro, poi senatore, poi presidente della Cassazione e ora avvocato e storico.
Pellegrino ha scritto, con Giovanni Fasanella, il libro-intervista Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso Moro(Einaudi), in cui sostiene che Moro fu ucciso per ordine della Cia. Dunque, Brigate rosse telecomandate, con il beneplacito del Kgb, che temeva di perdere il controllo di un Pci inserito nel governo Moro e dunque deciso a privilegiare gli interessi dell’Italia e non più quelli dell’Urss.
Imposimato, di libri ne ha scritti addirittura tre: Moro doveva morire (con Sandro Provvisionato), La Repubblica delle stragi impunite (2012) e I 55 giorni che hanno cambiato l’Italia (2013). Questi libri-testimonianza sono una clamorosa conferma al film “Piazza delle Cinque Lune”, girato dal regista Renzo Martinelli nel 2003.
E’ ormai di tutta evidenza che, con l’assassinio di Aldo Moro, fu raggiunto un duplice risultato: 1) eliminare il rischio di agenti sovietici in posti chiave del governo italiano; 2) dare inizio all’autodistruzione delle Br, sempre più osteggiate dal Pci e dalla sinistra legalitaria. Il che significa una cosa soltanto: che Cia e Kgb “gestirono”, ciascuno mirando ai propri interessi, il vertice decisionale delle Brigate rosse.
Se parlamento e magistratura (“primo” e “terzo” potere) riuscissero a chiudere definitivamente la faccenda, non sarebbe davvero male. Quanto al “quarto” potere (la stampa, i miei colleghi giornalisti), lasciamo perdere… Un’ultima osservazione. Michael Ledeen, giornalista americano, storico, esperto delle vicende italiane, risulta essere stato accanto ad Antonio Di Pietro nel suo viaggio in America del ’95 (conferenze, seminari, incontri). Ledeen aveva avuto un ruolo importante durante la vicenda di Sigonella (ottobre 1985, Abu Abbas, capo dell’Olp, catturato dagli americani, poi costretti dai Carabinieri ad abbassare le armi), come interprete del duro scontro telefonico tra il capo del governo italiano Bettino Craxi e il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan. Stefania Craxi da sempre sostiene che suo padre era convinto del ruolo della Cia dietro l’operazione Mani Pulite. Qualche collega giornalista con meno anni e più mezzi del sottoscritto vorrebbe approfondire?