Filosofo, teologo, e che teologo. Di tre papi, almeno, ma già Paolo VI aveva un rapporto stretto con lui. Georges Cottier era innanzitutto un frate domenicano, cinto dall’abito bianco col cappuccio degli antichi predicatori, che amava più della porpora cardinalizia, ricevuta da Giovanni Paolo II nel 2003. Un amico dei Piccoli fratelli e piccole sorelle di Gesù, prete operaio, tra i primi, uno dei primi a laurearsi su Marx, e divenire tra i maggiori esperti cattolici di marxismo e ateismo. Svizzero, temprato dal confronto continuo spesso duro col mondo calvinista; francese per lingua e frequentazioni, Maritain su tutti, e il suo maestro Charles Journet, che accompagnò al Concilio Vaticano II, di cui era uno degli ultimi testimoni: perché se n’è andato ieri sera, padre Cottier, eminenza che non voleva essere chiamato così, ricordando che era l’episcopato che considerava dono e grazia, più del cardinalato.
Se n’è andato dopo una brutta caduta, vecchissimo, lucidissimo e come sempre appassionato alla realtà, informato di tutto, capace di giudizi lungimiranti su tutto. L’ho frequentato tanto, negli ultimi anni, ne è nato un librino dal titolo scherzoso. Un titolo che lo divertiva (mai trovato in un 93enne uno spirito tanto giovanile), per cui mi aveva dedicato tanto tempo, sottratto alla sua fertile e inesausta attività di studio e scrittura, come se fosse ancora all’inizio della sua carriera universitaria.
Aveva capito ben presto che le domande che gli ponevo erano per me, erano per placare l’angoscia e la paura che mi avevano portato, dopo i periodi cupi seguiti al Vatileaks e alle “dimissioni” non comprese di Benedetto, a cercare una mente illuminata, che desse risposte, che aiutasse ad aver fede, ad affrontare le questioni più cruciali che si pongono all’uomo contemporaneo, che in tempo di scristianizzazione e soprattutto di indifferenza a Dio, non rifiuti di porselo, il problema di Dio; non rifiuti di correre per mantenere la fede, di giudicare i fatti alla luce della fede, mettendo insieme cuore e ragione: l’ateismo, i temi della bioetica, il dramma degli abusi sessuali, i lupi e le volpi che azzannano e sporcano la Chiesa…
Ringrazio Georges Cottier della pazienza, dei tanti sorrisi, delle sue spiegazioni così sapienti, ma calde, intrise di tenerezza e di un amore infinito per la Chiesa. “Dio non ama di meno questo tempo di quelli che ci hanno preceduto”, soleva ripetermi, e così la certezza che la Chiesa è di Cristo, e Cristo non la abbandonerà mai. E sempre, davanti alle vicende dolorose e incomprensibili, di fronte allo scandalo delle divisioni, delle malefatte, della confusione, “bisogna pregare molto”. Sempre. Perché la fede è da chiedere, e la grazia sostiene, chiarisce, toglie la paura.
Non finivamo mai un nostro incontro senza che mi chiedesse di recitare insieme un’Ave Maria. E’ stato così anche l’altro ieri, in una stanza d’ospedale in cui giaceva sofferente, con un respiro faticoso e stanco. Con un sorriso ancora più grande, e non una lamentela, ma anzi, la voglia come sempre di parlare, di ragionare, di sapere. Lui, che aveva scritto più d’una enciclica di Giovanni Paolo II (“è un segreto, non si può dire cosa e quale!”), che continuava a scrivere saggi acuti sulle più importanti riviste di teologia, che continuava a scrivere libri che costituiscono un corpus, una summa da studiare e custodire come archivio di rara ricchezza, aveva la bontà di essere, per me, e so per molti, un padre, un maestro. Pronto ad ascoltare, a confortare, a tener vive le preghiere dei tanti che gli corrispondevano: quella guardia svizzera, quella madre malata, quella donna abbandonata dal marito, quella ragazza sbandata e sola… “Coraggio! Andiamo avanti!”.
Un lascito, sempre: “Scrivi della Chiesa”. Alle proteste sull’incompetenza teologica e filosofica e storica e tutto il resto, scuoteva la testa, sorridendo ancora: “Sei una cristiana, non serve altro. Parla della Chiesa”. L’ultima benedizione, l’ultima Ave Maria, l’altr’ieri. Mai ho pensato che potesse essere un addio.