Certamente la scelta di Caproni per l’analisi del testo nelle tracce della prima prova dell’esame di stato avrà strappato un sorriso a molti professori, ma, sono sicuro, sorrisi ben diversi: quelli di imbarazzo di coloro che hanno in qualche modo coperto una profonda ignoranza (“sì, sì, Caproni…”, ma infondo dentro di sé ripetono il manzoniano “Carneade, chi era costui?”); e quelli di chi, conoscendo Caproni, si sono messi a pensare: “ma perché proprio questa poesia?”, “ma cosa sapranno mai i ragazzi di questo Caproni?”.
Già, perché la scelta di Versicoli quasi ecologici pare, così a caldo, tutta legata alla possibile banalizzazione del testo in senso, appunto, “ecologico”, dando così spazio a una serie di ovvietà che ognuno può immaginare e che, quindi, vi risparmio. Che gioia sarà per gli insegnanti correggere quelle analisi, tutte (o “quasi” per fortuna!) uguali sul tema (fatemelo dire!) più noioso dei temi, l’ecologia.
Ma, ai lettori più attenti, non sfuggirà che l’ecologia, per quanto sembri in primo piano, è solo uno spunto: lo sottolineano in modo evidente il quasi del titolo e la contraddizione rilevabile tra due versi: quell'”anche di questo è fatto / l’uomo” in cui la difesa della natura è la difesa del sentimento più umano che esista, l'”amore” –, e quel sospiro nel finale “Come / potrebbe tornare a esser bella, / scomparso l’uomo, la terra”. Come stanno insieme l’interesse a ciò di cui è fatto l’uomo e l’auspicabilità della sua scomparsa in favore di una natura finalmente non più deturpata da lui? Se non è il tema banale dell’ecologia, qual è il tema che serpeggia tra quel quasi e quell’immagine di una terra bella, ma per nessun amante? E allora invito, con l’introduzione che segue, alla lettura di Res amissa, la raccolta da cui è tratto il testo della maturità.
Res amissa è una raccolta edita nel 1991, ossia a più di un anno dalla scomparsa del poeta livornese. Il testo, curato da Giorgio Agamben, è l’edizione di alcuni manoscritti su cui Caproni stava ancora lavorando al momento della morte, e su cui avrebbe lavorato ancora. In particolare la poesia scelta per la traccia della maturità era contenuta in un fascicolo rubricato da Caproni con un Versicoli e altre cosucce, tutti da ordinare e rivedere, tanto che nell’edizione definitiva è stata inserita in una sezione del libro intitolata appunto Anarchiche o fuori tema.
Quello che sappiamo del tema intorno a cui Caproni stava lavorando quando morì è quello che lui stesso anticipa in più occasioni riguardo la poesia che avrebbe dato titolo alla raccolta, Res amissa: “Questa poesia sarà il tema del mio nuovo libro (se ce la farò a comporlo)”. Res amissa (la cosa perduta) è una riflessione sulla perdita della “grazia”, del bene. La raccolta avrebbe proseguito, in qualche modo per antitesi, il percorso di una precedente raccolta, il Conte di Kevenhüller, in cui, all’indomani della rivoluzione francese, un conte è impegnato nella caccia a una “Bestia” inafferrabile: “La Bestia è il Male. La res amissa [la cosa perduta] è il Bene”.
Il motivo ispiratore della raccolta su cui Caproni si accingeva a lavorare è espresso in Generalizzando:
Tutti riceviamo un dono.
Poi, non ricordiamo più
né da chi né che sia.
Soltanto, ne conserviamo
– pungente e senza condono –
la spina della nostalgia.
“Sarebbe, questa volta” — dice Caproni in un’intervista — “non più la caccia alla Bestia, come nel Conte di Kevenhüller, ma la caccia al Bene perduto. Un Bene del tutto lasciato ad libitum del lettore, magari identificabile, per un credente, con la Grazia, visto che esiste una ‘Grazia amissibile’. Con la Grazia o con chissà che altro del genere. (Non è comunque, quest’ultimo, il caso mio, credo)”.
Anche se ne prende ironicamente le distanze, Caproni evidentemente conosce la disputa tra Pelagio e Agostino circa la natura umana e la grazia divina: una disputa in cui Agostino sostiene, ribadendo la tradizione contro l’eresia pelagiana, che la Grazia sia amissibile: l’uomo, con il peccato originale, perdette la Grazia e, senza un intervento divino, non è più in grado di recuperare lo stato originario. Per l’ateo Caproni l’uomo è definito da quella “spina della nostalgia”, dal desiderio di un bene, così connaturato a lui da essere un “dono”, che però è inattingibile (“Non spero più di trovarla / l’ho troppo gelosamente / (irrecuperabilmente) riposta”, Res amissa).
Il teologo pone
Una “grazia amissibile”.
Ma quale altra amissione
Più dura (più terribile)
Di quella del dono rimasto
– per sempre – inconoscibile?
Così il disagio dell’uomo sulla terra è davvero solo “quasi“ ecologico: interamente è quello di essere Figlio di nessuno:
“Povero trovatello!
Chi ne ignora il rovello?
Buttato via dalla madre.
Mai visto né conosciuto il Padre”.
Così lo compiange il poeta,
suo simile dalla A alla Z.
E “il poeta” dei Versicoli quasi ecologici è quello che difende quell'”amore” che “finisce” quando l’uomo “per profitto vile / fulmina un pesce”, ossia si impossessa gelosamente di quel creato che per il Francesco delle Laudes creaturarum era segno infallibile, anche nella morte, del Creatore. Non stupisce quindi che un Inserto prosaico di Res amissa sia dedicato proprio al rapporto con Dio:
“Se Dio c’è o non c’è è questione secondaria. Il difficile è stabilire, ammessane l’esistenza, il suo rapporto con l’uomo”.
Res amissa
Non ne trovo traccia.
……
Venne da me apposta
(di questo ne sono certo)
per farmene dono.
……
Non ne trovo più traccia.
……
rivedo nell’abbandono
del giorno l’esile faccia
biancoflautata…
La manica
In trina…
La grazia,
così dolce e allemanica
nel porgere…
……
……
Un vento
D’urto – un’aria
Quasi silicea agghiaccia
Ora la stanza…
(È lama
di coltello?
Tormento
Oltre il vetro ed il legno
– serrato – dell’imposta?)
……
……
Non ne scorgo più segno.
Più traccia.
……
……
Chiedo
Alla morgana…
Rivedo
Esile l’esilefaccia
Flautoscomparsa…
Schiude
– remota – l’albeggiante bocca,
ma non parla.
(Non può
– niente può – dar risposta.)
……
……
Non spero più di trovarla.
……
L’ho troppo gelosamente
(irrecuperabilmente) riposta.
(Le poesie e le interviste a Caproni sono tutte tratte da Giorgio Caproni, Res amissa, a cura di Giorgio Agamben, Garzanti, Milano 1991).