Dovevo rispondere che non potevo, che ero pieno di lavoro fino al collo, che per favore lo chiedesse a un altro, ma deludere il mio amico Ignazio e negargli un commento all’opera collettanea sul pensiero di Marcello Cini (Per una Scienza Critica, Edizioni ETS) mi dispiaceva, e ancor di più mi dispiaceva visto che tra gli autori c’era, oltre a Ignazio Licata, anche Carlo Modonesi, un altro caro amico.
Da ciò il lettore comprenda quanto il “giro” sia piccolo e quanto, per chi abbia avuto dalla Provvidenza la ventura di far parte dell’Arte (minore) degli Scienziati (posto che sia consapevole del suo immeritato privilegio) l’amicizia sia un elemento di giudizio fondamentale. Insomma (chissà cosa avrebbe detto Marcello Cini a proposito) se un chirurgo sbaglia c’è qualcuno che rischia la pelle e situazioni simili valgono per magistrati, piloti, capitani di nave, se a me capita di toppare completamente un’analisi su una struttura proteica non capita un bel nulla. Questa spensierata vaghezza derivante dalla segreta consapevolezza di essere stipendiati per andare a giocare con i nostri trenini preferiti ci porta a tenere in gran conto i compagni di gioco (e questo è bene) ma anche a insuperbire e a diventare insopportabili e capricciosi saputelli (e questo è male).
Come tutte le azioni umane, la mia risposta affermativa a Ignazio era un miscela molto bilanciata di bene (dare una mano a un amico) e di male (sfoggiare una brillante verve con gli amici del piccolo bar della cultura scientifica). Frivolezza insomma, vanitas vanitatum come dicevano gli antichi.
Ma appena iniziato a leggere il libro che avrei dovuto commentare, ecco la giusta punizione: un fastidio crescente, una rabbia sorda che mi spingeva a chiudere definitivamente il libro e a non riaprirlo più. Dovevo mandare una mail a Ignazio e dirgli che non se ne poteva far nulla…o forse no, forse ero solo un codardo che aveva paura di andare a scovare le radici del fastidio per paura di scoperte poco piacevoli.
Non feci nulla, pensai ad altro per settimane, ma il disagio covava. Marcello Cini era stato per la generazione di scienziati italiani ‘impegnati’ o comunque interessati alle dimensioni culturali e sociali della scienza un punto di riferimento ineludibile. La sua opposizione a una visione che vedeva nella scienza sempre e comunque un fattore di ‘progresso’ gli aveva procurato non poche opposizioni. Ci furono commentatori italiani negli anni sessanta del secolo scorso – tra cui Lucio Colletti e Giorgio Bocca – che trovarono la tesi della non neutralità della scienza completamente intollerabile; fu proprio Giorgio Bocca ad accusare Marcello Cini di essere un cattivo maestro, un epiteto da cui poi egli trasse l’ispirazione per il titolo del suo libro autobiografico Dialoghi di un cattivo maestro. Ma il fastidio rimaneva.
La “parte al Sole” del fastidio era fin troppo evidente: derivava dall’insopportabile razzismo etico di chi ‘se fosse stato ascoltato a suo tempo’ avrebbe portato il Paradiso in terra, mentre, per dirla con Gomez-Davila, le cose stavano in maniera molto diversa: «Le coorti disciplinate di ‘ribelli’ sfilano nel nostro tempo tra le esaltate ovazioni del pubblico e sotto la protezione delle autorità civili ed ecclesiastiche, mentre i ‘conformisti’ fuggono perseguitati e cospirano in soffitte solitarie». Fuor di metafora mi dava fastidio non tanto che quelli di “Science for the People” non si fossero accorti che in Cina esistesse una dittatura sanguinaria o che i boat people vietnamiti non fossero esattamente degli appassionati di pesca e i montagnard degli sciatori indocinesi, ma che non riconoscessero l’esito nichilista e la conseguente dittatura assoluta del denaro come favorita da molte delle idee che nella loro giovinezza ‘ribelle’ propugnavano.
Il fastidio però nasceva da ben altre radici: io ero esattamente come quelli che criticavo (se non peggiore) e, se per pure ragioni anagrafiche (sono nato a Roma nel 1959), avevo contratto una forma lieve e giovanile, più facilmente risolvibile, dello stesso morbo; il fatto che mi ergessi a giudice spietato di chi aveva semplicemente sofferto più di me, era una grandissima schifezza.
E allora il risveglio. Non solo dovevo leggere il libro, ma anche sforzarmi a capire di più di Marcello Cini, grazie a cui anch’io mi ero esaltato tanti anni fa alla lettura de L’Ape e l’Architetto, e che avevo ascoltato adorante in un congresso tenuto tra Firenze e Roma: era il 1979 (o 1980 non ricordo), il titolo però me lo ricordo “The recasting of sciences between the two world wars” e per noi quattro studentelli secchioni, presenti grazie a borsa di studio, era come toccare il cielo con un dito.
Cosa c’era da ricavare da altre testimonianze di chi l’aveva conosciuto bene? E soprattutto come sistemare in un quadro coerente, quei lontani ricordi con il Marcello Cini di cui mi aveva tanto colpito lo sguardo malinconico e alcune frasi che mi avevano scosso (perché poi confidarsi con me … ci avevano presentati da poco) molti anni dopo, nel 2007, a un altro congresso, sempre a Roma, ma in un altro mondo. Insomma, la cosa si faceva seria, e quindi anche un pochino dolorosa.
Un’opera d’arte, se si tratta di vera arte, è un bene in sé, diceva San Tommaso e indicava, tra le altre cose, come segno distintivo dell’arte “Claritas et Simplicitas”. E L’Ape e l’Architetto era chiaro e semplice: era una solare evidenza che gli scienziati, così come i falegnami, i fruttivendoli, i commercialisti e i conducenti di tram fossero esseri umani e quindi inseriti nel loro tempo e che nel loro lavoro fossero impregnati dalle idee correnti.
Cini aveva semplicemente svelato questa evidenza scatenando le ire degli idolatri che invece volevano snaturare l’umanissima arte della scienza trasformandola in una religione senza amore. Che poi la scienza collaborasse al male della guerra, parafrasando Wolfang Pauli, “non era neanche sbagliato” era solo inevitabile visto che, come tutte le attività umane, soffriva del male e quindi dell’imperfezione (ma sarebbe stato così diverso per un costruttore di clave del paleolitico?).
Bisognava rendere ragione di questo dono di chiarezza, bisognava recensire il libro, magari scovando un appiglio iniziale… E la prima traccia mi salta agli occhi proprio dall’intervento di Ignazio: «Che si trattasse di un libro, di un articolo di fisica o di una discussione politica, Cini preferiva l’analisi circostanziata e la dichiarazione diretta all’artificio retorico e alla fumisteria matematica. Non mi sorprende più di tanto dunque che la stagione dei Festival lo abbia evitato, e che l’avvolgente fluidità della sua scrittura sia stata a volte definita da “addetti ai lavori” (quali?) come “difficile”».
Ecco la chiave, ecco che Marcello mi appariva improvvisamente come un fratello (né maestro, né tanto meno cattivo): il valore stabile della scienza è nel suo umile riferirsi ai fatti, alle esperienze materiali, e le due idolatrie ‘La scienza positiva depositaria della realtà’ e il festivaliero ‘Dato che la verità non esiste, la ‘narrazione’ scientifica è quella che si impone in quanto dotata di maggior prestigio’, erano solo le due facce della stessa odiosa medaglia. Questo Marcello l’aveva capito e non c’era nessuna contraddizione tra il criticare la scienza come ‘religione del progresso’ e la scienza come ‘supermarket azionato dal relativismo’, non erano state le idee di Marcello (e dei suoi amici) che avevano portato alla degenerazione di una falsa scienza puramente propagandistica; semplicemente il potere aveva cambiato strategia. Marcello era rimasto fedele alla concezione della verità scientifica come la verità in fieri dell’artigiano, la verità dell’onestà di una rappresentazione necessariamente parziale, ma “eseguita a regola d’arte”, della natura.
Ed ecco la seconda traccia, che il libro mi proponeva, da parte di Carlo questa volta: «Anche la scienza è, in termini molto semplificati, una mera questione di relazioni, e in particolare di relazioni “circolari” tra le nostre capacità sensoriali e cognitive da una parte, e “il mondo là fuori” dall’altra. “Il mondo là fuori” esiste, ed esiste a prescindere dall’esistenza dell’uomo e della sua mente: e dunque a prescindere anche dalla scienza».
Ecco l’inganno svelato: a ben vedere sia l’idolatria positivista che quella relativista si basano sulla negazione del “mondo là fuori”, sull’autosufficienza della scienza: il primo è più ingenuo e ci parla della futura morte della scienza perché a breve “non ci sarà nulla di nuovo da scoprire” (al giovane Max Planck era questo che dicevano sconsigliandolo di intraprendere la strada della fisica).
Il secondo è più insidioso e prende le forme delle mirabolanti panzane sulla Vita Artificiale di quel furbone di Craig Venter.
A noi scienziati amici di Marcello rimane da meritare l’epitaffio che quello strabiliante genio di Flannery O’Connor aveva assegnato a Joseph Conrad “Rendeva giustizia alle cose visibili perché ne suggerivano di invisibili”. Se poi le invisibili siano equazioni di campo, effetti allosterici di macromolecole o qualcosa di più, lo lascio al gusto e alla sensibilità dei miei amici.
Questa raccolta di testimonianze su Marcello Cini insomma va letta (a lui sarà dedicata una giornata di studi all’interno del Festival della Complessità, domenica 14 giugno presso Città dell’Altra Economia al Quartiere Testaccio a Roma); e se incontreremo le vestigia di un mondo strano e paradossale si sappia che le donne e gli uomini che lo hanno vissuto hanno sì commesso gravi e umanissimi errori ma perché erano integri e non separavano il loro essere dal loro fare. Scostare con delicatezza gli errori e cogliere le perle è lavoro che il lettore troverà grato. Per quanto conta la mia testimonianza, ve lo assicuro.