Con la seconda puntata trasmessa ieri, si è chiuso su Rai Uno il primo “capitolo” della miniserie “Gli anni spezzati”, un trittico dedicato a Luigi Calabresi, al giudice Mario Sossi e a Francesco Coco, e a un personaggio immaginario, Giorgio Venuti, ingegnere della Fiat negli anni della marcia dei quarantamila. Ilsussidiario.net ne ha parlato con Luciano Garibaldi, storico e giornalista, autore (e coautore) delle opere dalle quali sono state tratte le prime due sceneggiature: Gli anni spezzati, Il commissario (Edizioni Ares e Albatross, 2014) e Gli anni spezzati. Il giudice, riedizione Ares e Albatross del lavoro di Garibaldi, fatto insieme al giudice Sossi, Nella prigione delle Brigate rosse del 1978. “Lasciato solo in quel modo, è chiaro che l’opinione pubblica non poté che farsi un’idea su di lui: è colpevole” dice Garibaldi di Calabresi, denunciando l’odio politico che incendiò il paese in quegli anni drammatici e che costò la vita di 450 persone. Non risparmiandosi, come può farlo chi li ha vissuti da testimone prima che da studioso, una battuta (feroce) a proposito dei “mandanti morali” dell’omicidio del commissario.
Luciano Garibaldi, qual è la sua impressione dopo quel che ha visto in tv?
Direi sicuramente positiva. Rispetto per la verità storica, perfetta ricostruzione ambientale, ottima recitazione degli attori. Forse un po’ alto il sottofondo musicale, ma solo per chi è un po’ sordo come me e pertanto obbligato ad indossare una protesi acustica. Per gli altri è sicuramente piacevole e avvincente…
La prima puntata si è aperta con una voce narrante, quella del poliziotto Claudio Boccia. Ha un ruolo importante, visto il rapporto che si instaura tra lui e Calabresi. È un personaggio di pura fantasia o è realmente esistito?
È di pura fantasia, ma la sua invenzione da parte degli sceneggiatori e del regista Graziano Diana è quanto mai opportuna perché attrae decisamente più di quanto non possano fare dialoghi e scene improntati ai personaggi-chiave della drammatica vicenda. Dirigere un film non è come scrivere una cronaca giornalistica, e meno che mai come scrivere un libro di storia, definizione che mi permetto di dare, immodestamente, al mio lavoro. Per saperne di più, basta leggere il finale dell’ultimo capitolo del libro.
Calabresi appare come un uomo dello Stato, mite e senza eccessi, che cerca sempre il dialogo con i contestatori, gli anarchici, quelli che per gli altri poliziotti arrivano a essere dei nemici. Era davvero così?
Assolutamente sì. Lo prova un episodio raccontato nel mio libro. Poco tempo prima di entrare in polizia, nel ’66, aveva partecipato ad un dibattito tra giovani organizzato dal settimanale Epoca, dibattito i cui interventi erano stati registrati. Ecco l’inizio del suo intervento, che nel libro riporto quasi per intero: “Ancora qualche settimana e sarò commissario di pubblica sicurezza. È una strada che ho scelto per vocazione, perché mi piace, perché costituisce una prova difficile. Avrei molti altri modi per guadagnarmi uno stipendio ma sono affascinato dall’esperienza che può fare in polizia uno come me, che vuol vivere una vita profondamente, integralmente cristiana”. Del resto, per rendersi conto di queste sue bellissime caratteristiche è sufficiente leggere il libro Un profilo per la storia: Luigi Calabresi, scritto da Giordano Brunettin e pubblicato per la casa editrice Sacra Fraternitas Aurigarum Urbis, fondata e diretta da don Ennio Innocenti, suo padre spirituale.
Sembra che i superiori di Calabresi lo spingano a essere “aggressivo”, anche nel noto evento che porta alla morte di Pinelli. Quanto c’è di vero?
Aggressivo mai. Quanto a mettere in campo qualche trucco per vincere la ritrosia e la resistenza di chi non vuole rivelare tutto quello che sa, anche i bambini sanno che ciò fa parte dei metodi posti in atto persino dai genitori quando vogliono che i loro piccoli dicano la verità. L’aver detto a Pinelli: “Guardi che Valpreda ha parlato”, non mi pare costituisca una violenza psicologica nei confronti del fermato. Se Pinelli è estraneo alla cosa, che può importargli se “Valpreda ha parlato”?
Quanto in quegli anni si respirava il clima di “guerra” tra forze dell’ordine (e relativi dirigenti) e contestatori?
La cosiddetta “contestazione sessantottina” – non ostacolata dalla sinistra legalitaria – aveva sicuramente inasprito i rapporti tra dimostranti in piazza e forze dell’ordine. Scontri fisici erano all’ordine del giorno, specie nelle città con le grandi università. Era prevedibile, e normale, che polizia e carabinieri avrebbero reagito con la dovuta energia, specialmente quando gli aggressori tiravano ad uccidere, come fecero con il povero agente Annarumma, che ebbe il cranio fracassato da una spranga di ferro. Da considerare che era appena stata varata le legge che impediva alle forze di polizia di agire, in caso di reato, senza mandato dell’autorità giudiziaria. Prima di allora, un ladro, un aggressore, un violentatore venivano ammanettati e sbattuti in galera dalla polizia. Dopo di allora, più niente, se un magistrato non dà l’ordine.
Cosa pensa di come è stato rappresentato l’episodio della morte di Pinelli?
È stato rappresentato nell’unica maniera possibile, se si intende restare dalla parte di chi rispetta la giustizia. Ricordo che, sulla tragica fine di Pinelli, la magistratura emise, nel tempo, quattro documenti: due requisitorie e due sentenze. Le due requisitorie e una delle due sentenze concludevano per il suicidio. L’ultima sentenza per l’ipotesi del malore, ovvero della caduta accidentale. Ovviamente, i cultori del mito del “commissario Cavalcioni”, del “dottor Finestra”, della “Morte accidentale di un anarchico” del Nobel Dario Fo, avranno sicuramente da ridire sul punto.
Pinelli viene rappresentato come una sorta di anarchico “intellettuale”, mite e amante dei libri. Cosa sappiamo davvero sul vero Pinelli?
È sufficiente rileggere l’ottimo libro di Piero Scaramucci Licia Pinelli. Una storia quasi soltanto mia, dedicato alla vedova dell’anarchico, pubblicato dalla Mondadori nell’82, per capire che sceneggiatori e registi della fiction non si sono discostati da quella dolorosa ma preziosa testimonianza.
Come pensa sia stato rappresentato il “mondo” della contestazione, gli ambienti della protesta?
Direi senza particolare animosità. Visto cosa accadde, visto a cosa portarono quei disordini para-rivoluzionari (e mi riferisco alle 450 vittime degli “anni di piombo”, per non parlare dei mutilati, dei feriti e così via), sarebbe stato lecito anche presentare quel mondo per ciò che era: una giungla di dementi.
Ieri abbiamo visto Calabresi solo, abbandonato da colleghi e istituzioni dopo le accuse ricevute. Chi erano i veri nemici di Calabresi? Quali giornali e media puntarono il dito contro di lui?
La colpa più grave delle istituzioni fu non avergli dato l’autorizzazione (o meglio, non avergli fornito il necessario e ovvio supporto, a cominciare da quello economico) quando lui chiese di poter querelare per diffamazione giornali e giornaloni, giornalisti e giornalistoni che continuavano ad insinuare gravissime calunnie sul suo conto. Fu autorizzato soltanto a querelare Lotta Continua, che su ogni numero lo additava come assassino di Pinelli, e fu lasciato solo ad affrontare le migliaia di fanatici che, ad ogni udienza, lo accoglievano con urla, insulti, scritte vergognose. Parliamoci chiaro: fossi stato io il questore dell’epoca, o anche il sottosegretario agli Interni, lo avrei personalmente accompagnato ad ogni udienza. Lasciato solo in quel modo, è chiaro che l’opinione pubblica non poté che farsi un’idea su di lui: è colpevole. Solo un giornalista ebbe il coraggio di scrivere che stavano perseguitando un innocente: Enzo Tortora, su La Nazione e Il Resto del Carlino. Riconosciuto dalle canaglie che assistevano al processo, fu pestato a sangue.
Lei non era tra i giornalisti che seguivano quelle udienze?
No, perché stavo a Genova, dov’ero caporedattore del Corriere Mercantile. Ma fin dal giorno dell’assassinio di Calabresi, non esitai a denunciare, con nomi e cognomi, i miei “colleghi” (pardon) che lo avevano sottoposto ad un autentico calvario, in un articolo che sparai in prima pagina con un titolo eloquente: “Mandanti morali”. Quel pezzo l’ho riproposto nell’appendice del mio libro. E non per vantarmene. Ma perché vi sono indicati tutti quei personaggi. La stragrande maggioranza dei quali ricopre tutt’ora incarichi strapagati e percepisce pensioni dorate un po’ dappertutto.
Un’ultima domanda che riguarda il finale di ieri: si può dire che la morte di Calabresi si sarebbe potuta evitare se fosse stato più “tutelato”?
Se avesse avuto una scorta armata, sicuramente il capo del cosiddetto “servizio d’ordine” milanese di Lotta Continua, cui facevano riferimento il killer Bompressi e l’autista Marino, non si sarebbe azzardato ad organizzare l’agguato. I lottacontinuisti erano dei cialtroni alla ricerca di un posto ben retribuito nei giornali e nelle televisioni dei più conclamati capitalisti cosiddetti “di destra”. Non erano assolutamente in grado di agire, anche militarmente, come faranno, quattro anni dopo, le Brigate Rosse guidate da Mario Moretti il giorno dell’assassinio del procuratore generale di Genova Francesco Coco e dei due agenti della sua scorta. Meno che mai come farà il nucleo armato di via Fani con Aldo Moro e la scorta.
(Lorenzo Torrisi)