Che cos’è che tiene insieme il filo degli eventi? Che cosa tiene uniti gli uni agli altri i giorni di cui abbiamo memoria, quelli che guardando indietro si stagliano sugli altri indistinti e ci confermano che sì, stiamo vivendo, che non è tutto un sogno triste e malinconico, né un incubo scherzoso, l’adesso — il qui e ora in cui spendiamo corpi e anime?
Vien da pensare a questo, innanzitutto, davanti al bellissimo libro di Valentino Ronchi, L’epoca d’oro del cineromanzo (Nottetempo, 132 pp., 9 euro). Un libro che, riprendendo e un poco rivedendo i due precedenti, racconta in versi — con l’esattezza e le dissolvenze di una sceneggiatura da cineromanzo — le vicende di alcuni ragazzi tra i venti e i trent’anni o poco più, fissando attraverso le loro vite di speranza e tedio, di ideali nascosti e di rozzezze ostentate, il ritratto in movimento di una generazione, se non di un’epoca.
Generazione riconoscibilissima, quella dei nati nei tardi anni Settanta, in certe fisime né cattoliche né borghesi o forse entrambe, quelle ad esempio per cui il corpo di una donna — di una femmina, anzi — era temuto amato e sacro e per un ragazzo pensare una donna, anzi una femmina, era pensarne il «profumo», pensare «le forme sue di seno di mani,/ che toccherò una sera, i suoi pensieri» (Estate semplice, p. 97). Anni passati da vent’anni appena ma distanti, sembra, un universo, quelli in cui i corpi erano corpi e non proiezioni mentali e scoprire il corpo di un altro, scoprirne il sesso, sapeva di odore e d’umido, di mistero e di peccato, e allora ci si baciava — come racconta Anna adolescente — di nascosto e un po’ tremanti, con la mano di lui che osava senza osare, «la sua mano sotto la gonna ma sopra le calze» (Anna e Mélanie, p. 30).
Ma se già questa malinconia dal fondo allegro basterebbe a rendere il libro mirabile, ebbene non si tratta che di una parvenza, di un’attraente parvenza che conserva e custodisce un nucleo ben più prezioso. Perché questi versi allegramente malinconici — i più antichi dei quali hanno comunque più di dieci anni e resistendo fin qui hanno visto il loro autore crescere da giovane ragazzo a giovane uomo — raccontano una generazione ma non sono generazionali.
La malinconia di Ronchi e delle sue figure è infatti la malinconia di chi sa: di chi sa che c’è una pietà delle cose che s’impone perché le cose stesse promettono che un giorno saranno compiute. Che Ronchi lo sappia o meno — ma qualcosa fa intuire che lo sappia, almeno un poco — è al Paradiso che i suoi versi rinviano, tanto più quanto più paiono farsi mesti per il tempo che passa e porta via tutto. Ecco, a differenza di tanti sguardi, lo svanire di Ronchi lascia sì tristi in modo lancinante, ma di una mancanza che si sa, si è certi dovrà un giorno colmarsi.
E questa — finalmente ci arriviamo — non è naïveté, è ragione e tecnica: ragione al servizio del cuore e tecnica al servizio della ragione, perché è attraverso questo intreccio che emerge nei dettagli e s’imprime in chi legge la presenza delle cose, il loro esserci, prima e al di qua del loro svanire. Che le cose svaniscano, infatti, ce ne accorgiamo tutti, che poi ce lo si dica o meno. Ma che le cose ci siano, che vengano offerte, e che per questo vadano amate, custodite e difese — spese e difese —, ecco, che qualche artista sia in grado di mostrare l’esserci, è miracolo raro, che diventa via via più raro con l’imbarbarirsi del nostro pensare quotidiano.
Miracolo raro, allora, come quando il narratore occulto, in uno dei suoi rarissimi interventi diretti, ci indica anzitutto «un’estate per nulla qualsiasi» come luogo e tempo dell’evento, mettendoci sull’avviso; quindi — come Botticelli che vede emergere Venere — pennelleggia in pochissimi tratti l’incontro di un giovane adolescente, del suo sguardo, con l’avvenimento di Mélanie. Ed è così che visione reazione e giudizio si svelano a noi che leggiamo quasi in diretta, per partecipazione diretta, mentre ci viene detto che «dall’acqua che non c’era nessuno venne fuori/ una ragazza lunga e un po’ aguzza/ — sì, proprio Mélanie anche se ancora/ non sapevo il suo nome» (Anna e Mélanie, p. 47).
Così, in una vita che «alla fine per quanto/ ti ci danni, […] somiglia inesorabile e sfacciata/ a quella degli altri» tanto sono «poche le differenze sovrastate dalle somiglianze» (Anna e Mélanie, p. 65), in cui «tutto procede/ lento, per lenta erosione» (p. 70) se non che a strappi improvvisi si sente «qualcosa, fra la gola e la bocca dello stomaco» (p. 71), è proprio la voce della carne, della carne umida e calda, a dare la traccia di un eterno a venire: «C’è una vita prima della morte – dice e si tiene/ le caviglie Flaminia nuda sul letto. – Non è ateismo,/ il contrario. Proprio il contrario» (Cineromanzo, p. 128).
Un avvenire talvolta intuito, nei passi semplici e inavvertiti dei giorni, quando si incontra, magari in treno o in metropolitana un volto curioso che subito svanisce e si sospira tra sé e sé un ci rivedremo tanto assurdo quanto intuito, un arrivederci «fino a che un giorno il tempo sarà/ passato del tutto — e non così a piccoli tratti —/ e tutto sarà per allora di colpo semplice/ semplice e facile da capire» (Anna e Mélanie, p. 75).