È scomparso Luca Ronconi. All’età di 81 anni (l’8 marzo ne avrebbe compiuti 82), se n’è andato il più grande regista teatrale italiano e tra i maggiori d’Europa. Lascia uno spettacolo tuttora in scena al Piccolo Teatro di Milano (Lehman Trilogy, di Stefano Massini), e una quantità di progetti avviati, fedele alla sua instancabile e leggendaria voracità lavorativa, nonostante l’età avanzata, i problemi di saluti, gli otto anni di dialisi — come, forse, nell’inconsapevole convinzione che la morte non sarebbe mai stata così sgarbata da coglierlo mentre era occupato, ma avrebbe aspettato un momento di pausa.
Pause, Luca Ronconi, nel suo lavoro sembra non essersene prese mai; ed è per questo che qualsiasi resoconto esaustivo della sua attività risulta, qui, impossibile: la maggiore qualità del suo lavoro era infatti una vitalità irrefrenabile, quasi feroce; una dedizione assoluta al fatto teatrale in cui consisteva il primo fattore del suo genio — non tanto in una fantasia creativa, quanto in una perenne insoddisfazione per qualsiasi risultato gli sembrasse inferiore rispetto a ciò che, nella sua visione, doveva essere. Mai in un suo spettacolo qualcosa è stato casuale, pressappochistico, insignificante; mai si è vista una sua regia in cui non emergesse qualcosa, qualcosa di misterioso e vitale, che poteva anche non piacere allo spettatore, ma che in ogni caso lo provocava, lo costringeva a prendere una posizione, a interpellare anche solo per un attimo la coscienza di sé.
Nato a Susa, in Tunisia, nel 1933, diplomatosi come attore all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica di Roma nel ’53, esordì come regista dieci anni dopo; e già nel 1969 firmava il suo capolavoro: una regia dell’Orlando Furioso di Ariosto nella versione di Edoardo Sanguineti — non per il palcoscenico tradizionale, ma per gli spazi più diversi (memorabile una messinscena in Piazza Duomo a Milano). Colpì, di quello spettacolo, un aspetto su tutti: l’estrema libertà lasciata allo spettatore. Chi guardava il suo Orlando si trovava davanti più piste narrative simultanee, diverse traiettorie e vicende, ed era lui a decidere quale seguire; a ognuno veniva lasciata la decisione su quale percorso attraversare. Lo spettatore di Ronconi emergeva come individuo personale, come singolo, e la sua stessa libertà diventava un fattore decisivo dello spettacolo; il pubblico non subiva l’evento teatrale, ma — come nella vita — vi entrava in rapporto decidendo una strada, esercitando delle scelte, perdendo il senso, ritrovandolo, riscoprendo un’unità dove credeva di averla perduta.
Da allora, la carriera di Ronconi non si è mai fermata: catapultato nell’universo dei grandi registi europei e delle più importanti istituzioni teatrali (è stato direttore del Teatro Stabile di Torino, della Biennale Teatro di Venezia, del Teatro di Roma, del Piccolo Teatro di Milano), non ha mai smesso di creare spettacoli memorabili. La sua tanto decantata creatività innovativa consisteva in questo: creare un contraccolpo reale nello sguardo dello spettatore, sorprenderlo, aprirsi un varco nella sua abitudine.
Di qui l’anticonformismo, le continue, folli fuoriuscite dagli spazi teatrali consueti: dalla messinscena di Gli ultimi giorni dell’umanità, di Karl Kraus, nel 1991 al Lingotto di Torino, allo straordinario spettacolo Infinities, realizzato nel 2002 nei capannoni della Bovisa di Milano e dedicato al trattato del cosmologo John David Barrow; dalle travolgenti operazioni testuali di Lolita di Nabokov e Quer pasticciaccio brutto di via Merulana di Gadda alle straordinarie maratone recitative e scenografiche della Torre di Hofmannsthal o del recentissimo Panico del quarantenne argentino Rafael Spregelburd, senza parlare poi della sua attività come regista d’opera lirica. E dall’altra parte, specie nei suoi ultimi anni, altrettanto valore ha avuto l’attività pedagogica. Di tasca sua, aveva fondato il Centro Teatrale Santa Cristina, vicino a Perugia: un cantiere sempre aperto, immerso nella campagna umbra, dove le più giovani generazioni di attori e registi hanno potuto — con lui, e gratuitamente — imparare quello strano, oscuro e splendido lavoro che è l’interpretazione, a tutti i suoi livelli.
Quella di Ronconi era un’intelligenza tutta dedita alla possibilità dell’evento teatrale: possibilità sempre nuova, sempre inedita, da sorprendere ogni volta nuovamente. Il suo teatro è stato sempre l’ostinata ricerca del come attraversare, rappresentare e comprendere quel qualcosa di misterioso, d’impenetrabile, che la vita dell’uomo fa venire a galla. In una recente intervista, Ronconi è tornato a insistere sul fatto che il teatro non solo permetta ma sia una vera e propria forma di conoscenza. Un grande critico teatrale, Franco Quadri, parlò, in suo libro su Ronconi, di «rito perduto». Forse è in questa formula che troviamo la radice più vera del lavoro di questo maestro; in un tentativo di inseguire e recuperare qualcosa che sembra essersi perduto: un misterioso accadimento, un trasalimento imprevisto, l’insorgere di una coscienza ferita e — proprio per questo — più umana, più viva. Ronconi se n’è andato, ma il desiderio di quel contraccolpo ci rimane, ci interroga, ci accompagna; e ce lo rende vicino.