La parola magica di questi mesi è diventata low cost e il tormentone sui giornali lancia soluzioni tra le più disparate per rispondere alla crisi: dalla spesa in campagna (a chilometro zero), al rifiuto degli imballaggi.
Ce n’è per tutti, con tanto di colpevolizzazione per chi mangia carne, giacché secondo gli esperti una vacca e un maiale inquinerebbero più di ogni altra cosa e soprattutto sorbirebbero troppa acqua. E tra le colpevolizzazioni non mancheranno altre risorse che in questi anni sono state il simbolo della rinascita enogastronomica italiana, abbracciata persino da quella “gauche à caviar de noantri”, e già pronta al contrordine compagni!
Apparirebbe dunque sconveniente parlare di gusto, anche se la cosa suona un po’ come un moralismo sterile, sintetizzato da quella vignetta che Guido Clericetti ha pubblicato sull’ultima edizione del libro Adesso, 365 giorni da vivere con gusto dove un tizio dice: “Vieni al congresso della Fao?” E l’altro: “C’è il buffet?”.
Ora, merita a questo punto fare una considerazione che spazza via ogni idiozia per cui il gusto sarebbe una cosa da ricchi, per pochi, di nicchia e – presto o tardi – anche di destra. Il gusto c’è. È un dato di fatto, esiste fin dalla nascita del mondo (già, la mela…) e con sé porta un elemento che si chiama piacere. Non è dunque una cosa per ricchi, non è di destra o di sinistra: è una cosa per gli uomini tanto che una santa medievale, Ildegarda Von Bingen disse: “C’è perché Egli l’ha ritenuto indispensabile per l’uomo”. Indispensabile, dunque, quasi una strada a tappe che ci coinvolge tre volte al giorno e che può far percepire i tratti di un’origine, della nostra origine.
Insomma noi siamo creati per tendere anche a quello. Sarà strano, ma è così. E il gusto risiede nel caviale iraniano come nel pomodoro coltivato dietro casa, che in questi giorni è andato di traverso alla neo direttrice de l’Unità, che ha esordito con una metafora sbagliata.
Ma il gusto è talmente interessante, che stamane a Rimini, insieme con il sindaco di Milano Letizia Moratti, in prima fila sul tema “Nutrire il Pianeta” che sarà sviluppato nell’Expo del 2015, ne parleranno Andrea Muccioli e Dario Odifreddi. Il primo è il responsabile della Comunità di San Patrignano, il secondo della Piazza dei Mestieri di Torino. Ma nel gruppo del Good Food c’è anche la cooperativa Giotto che nel carcere di Padova fa dei panettoni eccezionali.
Ebbene queste tre realtà sono accomunate dalla produzione di cose buonissime (vino, cioccolato, birra, salumi, formaggi, dolci e persino un ristorante citato dalle guide più autorevoli), che sono diventati un fattore pedagogico per ridare dignità alle migliaia di persone che aiutano a riprendersi. C’è un parallelo persino con i monaci della Cascinazza, che alle porte di Milano hanno prodotto una birra eccezionale secondo la scuola dei monaci trappisti belgi.
Cosa vuol dire tutto questo? Avrebbe avuto senso produrre tutto ciò come un atto meccanico senza pensare all’esisto organolettico? Certo che no?
Anzi, per Vincenzo Muccioli come per i monaci di Gudo Gambaredo, il vino e la birra dovevano essere – fin dall’inizio – il massimo della qualità. Solo nello splendore di quell’arte – pare di capire – sarebbe stato possibile far ritrovare la dignità ad una persona, per Muccioli, e a rendere gloria a Dio, per i monaci benedettini. Meno di così non c’entra: il gusto non conosce mezze misure.